Elezioni: la Spagna ci riprova

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Per la quarta volta in quattro anni la Spagna è tornata alle urne nel tentativo, probabilmente vano, di dare un governo stabile al Paese.

Lo ha voluto il Premier socialista Pedro Sanchez, alla guida di un governo minoritario, dopo avere inutilmente tentato un’alleanza con il partito di “Unidas podemos” di area progressista, avendo di fronte un’opposizione composta dal Partito popolare e dal partito centrista “Ciudadanos” e , in agguato, il nuovo partito estremista nazionalista “Vox” e sullo sfondo – ma in realtà al centro della contesa elettorale – le rivendicazioni autonomiste della Catalogna.

L’esito del voto non aiuterà la formazione di un nuovo governo: il partito socialista è sì arrivato primo, ma lontano dalla maggioranza di cui aveva bisogno per governare; Podemos, candidato a essergli alleato nella scorsa legislatura è crollato nei consensi; li ha raddoppiati invece l’estrema destra nazionalista di Vox, passata in pochi mesi da zero seggi a 52 ed hanno ripreso forza i Popolari, senza tuttavia rimbalzare come sperato. Sulla carta i numeri dicono che la sola maggioranza praticabile dovrebbe vedere insieme socialisti e popolari, una specie di centro-sinistra difficile da costruire.

Sul voto hanno pesato molto, se non quasi prevalentemente, le vicende catalane, aggravate dalle pesanti sentenze giudiziarie nei confronti dei leader autonomisti. Né sono valse a confortare i socialisti al governo le condizioni economiche del Paese con il peggioramento delle prospettive della crescita, relativamente sostenuta negli ultimi anni, ma in significativa riduzione secondo le previsioni  UE per i prossimi tre anni, anche se migliori della media europea, per non parlare di quelle molto modeste dell’Italia.

Sicuramente al centro della competizione elettorale, e dell’instabilità confermata dal voto, vi è stata la forma attuale e futura dello Stato spagnolo, alla ricerca probabilmente di una nuova Costituzione di orientamento più marcatamente federale, ma senza minare la sovranità nazionale.

Si tratta di dinamiche in parte già arrivate a compimento in alcuni Paesi, con esiti in fase di prova in Belgio e da tempo consolidati in Germania, estranei alla forma-stato francese e  “oscuro – ma nemmeno tanto – oggetto del desiderio” da parte delle regioni settentrionali d’Italia. Con tutta l’instabilità politica che anche da noi potrebbe derivarne, in aggiunta a quella abbondante che già abbiamo. Sarà per l’Italia un nuovo capitolo del contenzioso per il governo giallo-rosa che ha appena reso noto il suo piano per le autonomie regionali.

Tornando alla Spagna e all’Europa è inutile sperare che, prima o poi, la vicenda catalana non finisca per cercare di atterrare sul tavolo dell’Unione Europea, come già avvenuto nei mesi scorsi. Ancor più se l’esito finale di Brexit soffiasse sul fuoco della voglia di indipendenza della Scozia, che sul tema ha già annunciato un referendum nel 2020 con il rischio di esiti destabilizzanti per il Regno Unito, confrontato anche da tentazioni “unioniste” tra le due Irlande.

In un’Unione Europea, già largamente percorsa da faglie sismiche tra i suoi Paesi membri che rischiano di minarne la stabilità, la riconferma di instabilità politica da parte degli elettori spagnoli potrebbe aggiungere problema a problema e confermare l’orientamento di Bruxelles ad arginare derive regionali, appellandosi al rispetto della sovranità spagnola ma a prezzo di raffreddare il cammino verso una futura sovranità europea.

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