Sembrano così lontane quelle “primavere arabe” di undici anni fa tanto da essere percepite come relegate negli archivi più profondi della storia. Eppure, quei venti che sapevano di libertà, di richiesta di democrazia, di aspirazione ad una vita economica e sociale migliore e affacciata sul futuro, avevano sollevato una lunga ondata di entusiasmo e di speranza.
Dall’Egitto alla Siria, dallo Yemen alla Libia, quei venti hanno invece spirato per brevissimo tempo, subito fermati da nuove dittature o da guerre mai risolte. Unico Paese che ha coltivato, seppur con difficoltà, il germoglio della democrazia è stata la Tunisia, oggi sempre più a rischio dopo l’adozione, attraverso un referendum tenutosi lo scorso 25 luglio, di una nuova e inquietante Costituzione.
Con una partecipazione che non ha raggiunto il 30% degli elettori, l’adozione della nuova Costituzione rappresenta un passo supplementare verso un regime che concentrerà sempre più poteri nelle mani del Presidente in carica, Kais Saied, mettendo a serio e grave rischio la separazione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario e indebolendo il ruolo del Parlamento. Una deriva autoritaria che il Presidente tunisino aveva già delineato nel corso dei mesi scorsi, in particolare quando, esattamente un anno fa, sciolse il Governo, sospese il Parlamento e assunse i pieni poteri in attesa del suddetto referendum e dell’entrata in vigore della nuova Costituzione.
La nuova Costituzione infatti oltre ad aumentare i poteri istituzionali del Presidente, gli concede il potere di ratificare leggi, di essere il Capo delle Forze Armate e soprattutto gli offre la possibilità di prolungare l’incarico presidenziale oltre i due mandati di cinque anni previsti. Non solo, a differenza della Costituzione del 2014, nata dopo la “Rivoluzione dei Gelsomini”, non prevede nessun controllo e nessuna procedura di sospensione nei confronti del Capo dello Stato, rendendolo praticamente inattaccabile e inamovibile.
Sembra chiudersi così la parentesi democratica della Tunisia, durata poco più di dieci difficili anni e sulla quale si erano concentrate l’attenzione e la speranza di buona parte della comunità internazionale. Si apre invece una nuova stagione carica di incertezze politiche sullo stato di diritto e sul rispetto dei diritti fondamentali. Non solo, ma la situazione economica e sociale della Tunisia è a dir poco preoccupante, ulteriormente aggravata dalla pandemia di Covid 19 e oggi, come tanti altri Paesi della regione, ostaggio delle forniture di grano bloccate dalla guerra. La Tunisia è infatti il primo Paese al mondo per consumo di pane e il 47% dei cereali importati proviene dall’Ucraina.
È una situazione preoccupante e che aggiunge inquietudine sulla stabilità non solo del Paese ma di tutta la regione, mossa oggi dai sussulti e dai cambiamenti provocati sullo scacchiere internazionale dalla guerra della Russia in Ucraina, senza dimenticare l’impatto che avrà sui flussi migratori.
Appuntamento ora, per la Tunisia, per le elezioni parlamentari annunciate per dicembre. Elezioni che l’Unione Europea, nella sua inquieta dichiarazione sul referendum costituzionale, si augura rappresentino un’opportunità “per promuovere un autentico scambio nel quadro di un dialogo nazionale inclusivo, che garantisca la legittimità e la rappresentatività del futuro Parlamento e un ritorno del Paese al regolare funzionamento delle Istituzioni.”