La lezione di Brexit

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Che Brexit non avrebbe portato bene al Regno Unito, e nemmeno all’Unione Europea, non era difficile prevederlo. Le prove sono arrivate praticamente subito, non appena firmato un accordo di recesso la cui fragilità non sfuggiva a nessuno. Nemmeno al suo inventore, quel Boris Johnson diventato Primo ministro britannico grazie a una Brexit imbottita di bugie, della quale non fu tuttavia il solo sciagurato architetto.

La secessione britannica inizia da lontano, con il populismo forsennato di Nigel Farage attivo fin dal 1993 – all’indomani del Trattato di Maastricht – nel “partito per l’indipendenza del Regno Unito” di cui sarebbe diventato leader con ampi consensi, fino ad attirare nella sua orbita al Parlamento europeo l’italiano Movimento Cinque stelle, disponibile ad avventure del genere.

Altro protagonista della deriva britannica fu quel David Cameron, ex Primo ministro scomparso nel nulla (provare a digitarne il nome sul web…), dopo aver ottenuto da Bruxelles le ennesime garanzie di “indipendenza” che lo indussero a convocare un referendum finito come sappiamo. 

Erede di quella irresponsabilità fu la povera Theresa May, Primo ministro rapidamente defenestrato da Boris Johnson, con l’aiuto di un Partito conservatore che da allora non finisce di sbandare e che adesso è alla ricerca di un nuovo leader chiamato in autunno, se non prima, a prendere la testa del governo.

Questo il sommario riassunto di una stagione non proprio gloriosa per il Regno di Sua Maestà, la sola che regga nel tempo ad onorare la storia del grande passato di un Paese-impero che aveva dominato il mondo.

Al suo Regno Unito Johnson lascia un’eredità pesante: non solo lo sbandamento del partito conservatore che pure aveva portato a una schiacciante vittoria nel 2019 e una gestione inizialmente molto avventurosa della lotta al Covid, ma anche un’economia in grande difficoltà e un’instabilità politica destinata a pesare in casa e nell’attuale turbolenta congiuntura internazionale.

L’economia britannica ha dovuto registrare una pesante caduta degli scambi commerciali con l’UE, suo principale partner, un’impennata del debito e un’inflazione che a fine anno potrebbe raggiungere l’11%. Unico segno positivo il rialzo della sterlina all’indomani delle dimissioni di Johnson.

L’instabilità politica si è aggravata dopo le dimissioni, tanto all’interno del Regno Unito che sul fronte della guerra della Russia all’Ucraina. 

Resta irrisolto il problema dell’Irlanda del nord e della sue frontiere “commerciali”, con pericolose ricadute sulle frontiere geografiche e politiche, in presenza di spinte verso un’unione con la Repubblica d’Irlanda all’indomani del successo del partito del Sinn Fein, a dominante cattolica. Una situazione che incoraggia la Scozia a ritentare la strada del referendum per rendersi indipendente da Londra nella speranza un riavvicinamento all’Unione Europea, una prospettiva per ora non in programma da parte del Regno Unito.

Sul versante internazionale, il governo Johnson si era mostrato il più convinto alleato degli Stati Uniti nel sostegno all’Ucraina, contribuendovi con importanti aiuti militari e proponendosi come “falco” poco disponibile ad accelerare eventuali trattative di pace.

Dall’altra parte della Manica l’UE assiste preoccupata a questa ennesima avventura britannica tenendo il punto sul rispetto degli accordi sottoscritti con il Regno Unito, che Johnson era pronto a rompere sulla questione irlandese, e adattando le proprie strategie in vista di una auspicata tregua sul fronte ucraino, nonostante i timori della Polonia e dei Paesi baltici per un eventuale alleggerimento della pressione della NATO, dove Germania, Francia ed Italia non si riconoscevano nella bellicosità di Johnson. 

Magari anche in questo caso potrebbe capitare che non tutti i mali vengano per nuocere.

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