Da Londra un segnale e un’occasione per l’Unione europea

1562

Ancora una volta è evidente l’intreccio tra elezioni nazionali e politica europea e viceversa, segno che, piaccia o no, siamo tutti sulla stessa barca e ci tocca remare. Che poi qualcuno remi in un senso e qualcuno in un altro non è una novità nell’UE.

Per convincersene basta guardare, tra l’altro a quanto avvenuto in Italia con le elezioni europee di un anno fa e in Gran Bretagna con le elezioni della settimana scorsa…

A maggio 2014, in occasione delle elezioni europee, si registrò per l’Italia lo straordinario risultato del Partito democratico con il suo insperato bottino del 42% che aprì la strada al programma di riforme annunciato da Matteo Renzi, legittimandone le iniziative malgrado la sua mancanza di una legittimazione elettorale diretta.

Un anno dopo, una tornata elettorale esclusivamente nazionale avrà un impatto importante sul futuro dell’Unione Europea. È il caso delle elezioni in Gran Bretagna, che hanno visto scontrarsi sostenitori e avversari del processo di integrazione comunitaria, in un dibattito che  aveva in controluce l’interrogativo sulla presenza della Gran Bretagna nell’UE.

Un interrogativo lanciato da David Cameron con l’impegno, in caso di vittoria a queste elezioni, di sottoporre a referendum entro il 2017 la permanenza o meno della Gran Bretagna nell’UE. Una mossa azzardata e poco apprezzata dai suoi amici e alleati nell’UE, senza peraltro sollevare troppe reazioni a Bruxelles dove in molti cominciano a non considerare un dramma la fuoruscita britannica dall’UE.

Come andrà è difficile prevederlo: molto dipenderà dai futuri sviluppi della politica inglese che non dipende solo dalle mosse di David Cameron, uscito con la maggioranza assoluta dalle  elezioni del 7 maggio, ma anche dalle altre forze politiche, in particolare dal Partito nazionale scozzese determinato a uscire dalla Gran Bretagna e a restare nell’UE, sollevando non pochi problemi tanto a Cameron che a Bruxelles. Se a questo si aggiunge la voglia di rivincita di laburisti e liberal – democratici, orientati in favore dell’UE, e dell’UKIP di Farrage che continuerà a lavorare ai fianchi di Cameron giudicato troppo molle con Bruxelles, allora non stupiranno le turbolenze che si scateneranno al di qua e al di là della Manica.

Una cosa è chiara fin d’ora: l’attuale assetto istituzionale dell’UE scricchiola sempre più  vistosamente, tra quanti vorrebbero accelerare verso un’unione politica, quelli ai quali basta la partecipazione a un grande mercato, come gli inglesi, e quelli che oscillano tra le due sponde e contribuiscono a paralizzare l’azione politica europea.

Già oggi la Gran Bretagna è mezza fuori dal processo di integrazione: non ha aderito all’euro, non ha sottoscritto il Trattato di Schengen sulla libera circolazione, non ha aderito all’accordo intergovernativo del “Fiscal pact” sulle regole finanziarie e nulla lascia credere che ci sia qualcuno oggi in Gran Bretagna che da questa posizione marginale voglia smarcarsi.

Ma quanto a lungo potranno sopportare i partner della Gran Bretagna nell’UE questo suo stare dentro e fuori, cercando di incassare i benefici del mercato unico,  ma senza pagare i prezzi della convergenza europea e assumere responsabilità, come abbiamo appena sperimentato con l’indecente rifiuto di Cameron di accogliere una quota adeguata dei profughi che approdano sulle sponde del Mediterraneo?

Sarebbe appena normale che l’Italia facesse sentire la sua voce, non per contribuire a cacciare fuori dall’UE la “perfida Albione”, ma senza nemmeno farsi ricattare dalla minaccia di una sua fuoruscita e senza pagare il prezzo di ulteriori deroghe ai Trattati richieste in continuità dalla Gran Bretagna e che certo non faciliteranno né la Francia né la Germania.

Perché non rispettare fino in fondo la pretesa sovranità della Gran Bretagna e la sua eventuale decisione di uscire se non si riconosce nel progetto comunitario? Sarebbe anche un modo per rafforzare la sovranità condivisa europea e aprire la strada, per chi ci sta, alla costruzione finalmente di un’Unione politica.