Crediti europei e discredito italiano

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Le turbolenze politiche di casa nostra alla vigilia dell’adozione del Recovery Fund meritano qualche riflessione, sull’Italia e sull’Unione Europea.

Sull’Italia, cominciando con l’adozione a luglio 2020 del Recovery Fund con il governo Conte 2, non zavorrato dall’antieuropeismo della Lega, e con l’affiancamento discreto ma efficace del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il risultato fu una straordinaria apertura di credito all’Italia, testimoniata non solo dall’imponente  dotazione finanziaria riservatale, ma più ancora dal fatto che questa era ricavata dalla creazione di un debito comune europeo, un credito aperto e garantito dalla solidarietà di tutti i Paesi UE. 

Il seguito è noto: il governo Conte lavorò in condizioni difficili all’elaborazione del “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (PNRR) in vista di attivare quel credito che, nel mezzo di una drammatica pandemia e del crollo dell’economia,  incappò proprio sul PNRR in una sconcertante crisi di governo che, per salvare il salvabile, indusse il Presidente della Repubblica ad affidare la guida di un nuovo governo a Mario Draghi, forte del credito internazionale di cui godeva. Un credito che nei giorni scorsi è stato messo a dura prova al momento di un confronto preliminare con la Commissione europea per una prima valutazione dell’impianto del PNRR. 

È stato necessario per Mario Draghi mettere sul piatto tutto il suo credito personale a garanzia degli impegni assunti da forze politiche della maggioranza litigiose, dotate complessivamente di poco credito agli occhi di Bruxelles. Né di molto credito gode da tempo l’Italia in Europa per la sua incapacità di realizzare riforme che l’UE le sta chiedendo di mettere in cantiere da una decina d’anni – di qui nacque il governo Monti –  e che ora vengono sollecitate come contropartita alla solidarietà europea del Recovery Fund. Si tratta di una lista impegnativa, dalla riforma fiscale a quella della giustizia civile e penale, da quella della Pubblica amministrazione a quella della concorrenza.

Ma una riflessione merita anche il credito di cui gode di questi tempi l’Unione Europea, divisa al proprio interno, lenta nelle decisioni e nella messa in cantiere delle sue politiche.

Divisa al proprio interno lo è per responsabilità dei suoi Paesi membri, alle prese con interessi divergenti, ma anche per il suo confuso assetto istituzionale, come dimostrato dall’incidente della “sedia mancante” ad Ankara, e anche inadeguata per le sue azioni concrete in settori delicati come quello della salute pubblica, con la vicenda dei vaccini, e come quello della protezione dei migranti di nuovo vittime di stragi nel Mediterraneo. 

E’ vero che mancano all’UE le competenze necessarie per intervenire, ma allora vanno individuate le responsabilità di ognuno: queste risiedono molto di più nei governi nazionali che non nella Commissione. E non basta all’UE elargire crediti per avere credito, come non basta il credito di Draghi per contrastare il discredito maturato negli anni dall’Italia a livello internazionale ed europeo.

Rimediare a queste insufficienze richiede un lavoro di lunga durata condotto da responsabili politici dotati di una forte legittimità popolare. Per l’Italia scarso è il credito per governi che durano poco e per responsabilità affidate a personalità pur autorevoli ma non accreditate dal voto; per l’UE vale qualcosa di analogo, tenuto conto dei tempi lunghi dell’avventura dell’integrazione europea e di un sistema istituzionale dove chi ha una legittimazione universale diretta, come il Parlamento, conta meno di chi non ne dispone, come la Commissione e il Consiglio dei ministri.

Fa anche riflettere che per sbloccare la strada al PNRR italiano sia dovuto intervenire Mario Draghi con Ursula von der Leyen: un dialogo certo meritorio, ma che solleva qualche perplessità sulla vita democratica in Italia e in Europa, dove anche la legittimità popolare va rispettata se si vuole aver credito agli occhi dei cittadini.

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