Ci sono voluti mesi, quasi un semestre, perché l’Unione Europea entrasse da protagonista nella lotta alla pandemia, prima nei limiti angusti delle sue competenze in materia e poi, con il Consiglio europeo del 21 luglio scorso, imprimendo una svolta profonda alle politiche finanziarie, economiche e sociali dell’UE. E’ di tre mesi fa la decisione di accendere un debito comune europeo per finanziare un Fondo per la ripresa dotato di 750 miliardi di euro che, aggiungendosi ai circa 1100 miliardi del bilancio UE 2021-2027, consenta di rilanciare l’economia europea e rispondere alle ansie dei suoi cittadini.
Nel frattempo si è mossa più rapidamente la Banca centrale europea, con un ingente acquisto di titoli pubblici per alleviare gli affanni dei conti nazionali, dell’Italia in particolare. Più lenta si è mossa la complessa macchina comunitaria – Consiglio dei ministri, Commissione e Parlamento – che ancora alla data di oggi stenta a formalizzare l’accordo di luglio, dopo avere comunque liberato risorse importanti con il Meccanismo europeo di stabilità (MES), di cui l’Italia farebbe bene ad approfittare, e il piano SURE di sostegno alle casse integrazioni dei Paesi membri finalmente in dirittura d’arrivo.
Il Consiglio europeo della scorsa settimana non è riuscito a venire a capo del percorso accidentato del bilancio europeo ed è inoltre rimasto impigliato nell’infinita vicenda di Brexit, ancora in alto mare dopo quattro anni dall’azzardato referendum del giugno 2016.
Non sfugge a nessuno che i tempi della macchina comunitaria non sono quelli della pandemia da Covid-19 la quale, già in grande vantaggio sulle decisioni tanto dell’UE che dei Paesi membri, ha acquisito nuova velocità, facendo nuove vittime tra le persone e nelle economie nazionali.
Allo stato attuale dei negoziati, Brexit a parte, si profila la prospettiva che la presidenza di turno tedesca, con Angela Merkel alla testa, possa chiudere l’intesa, senza troppo cedere alle richieste del Parlamento, ma anche senza assumere impegni troppo vincolanti per quanto riguarda il rispetto dello stato di diritto da parte di Polonia e Ungheria. Ma non finisce qui la via crucis del bilancio e del Recovery Fund: ancora saranno necessarie le ratifiche parlamentari tanto dell’Assemblea di Strasburgo che dei parlamenti nazionali, alcuni dei quali alle prese con elezioni, come nel caso della “frugale” Olanda. Come dire che, se tutto va bene, a Natale si potrà “mangiare il panettone”, ma non ancora il resto del menù. La parte più consistente delle risorse UE rischia di non poter diventare operativa prima del secondo semestre 2021. Dovranno infatti, nel corso del primo semestre, essere presentati a Bruxelles i piani di ripresa nazionali: questi ultimi, dopo la valutazione della Commissione, potranno ancora dover passare al vaglio del Consiglio europeo per eventuali integrazioni e correzioni.
A questo punto una riflessione si impone. L’Unione Europea è una realtà complessa, in continuo divenire dentro una storia e in un mondo in rapida evoluzione, governata da regole condivise tra le Istituzioni ma interpretate diversamente secondo il profilo di ciascuna: con un Parlamento e una Commissione da una parte, orientate in senso federale e guidati dall’interesse comune europeo, e con un Consiglio europeo dall’altra ancora prigioniero di uno schema confederale e attento prioritariamente agli interessi nazionali. E’ la coraggiosa impresa, largamente incompiuta, di promuovere una “democrazia tra le nazioni”, il cui rispetto comporta oggi ritardi nel processo decisionale, come l’emergenza della pandemia ci ricorda impietosamente.
E’ il prezzo che paghiamo a questa ricerca di democrazia messa a dura prova dal Covid-19, un maledetto virus che forse ci aiuterà anche a fare un balzo verso quella benedetta Unione politica, meglio attrezzata per affrontare le sfide di questi tempi difficili.
Che utopia pensare di esportare la democrazia ovunque ….