Caucaso, una pace dolorosa

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Si è conclusa in poche settimane la guerra tra Armenia e Azerbaijan nel Nagorno Karabakh. Una guerra scoppiata in piena pandemia del Covid 19, nel cuore di un Caucaso multietnico e multireligioso sempre in tensione e attraversato da linee di conflitti irrisolti o “congelati”.

Questa nuova guerra covava tuttavia da circa trent’anni, da quando con la caduta dell’Unione sovietica e la conseguente indipendenza dei due Paesi, è emerso in tutta la sua complessità lo statuto del Nagorno Karabakh, un’enclave abitata da armeni in territorio azero, autoproclamatasi indipendente nel 1991 e mai riconosciuta a livello internazionale. Dopo una guerra combattuta in particolare fra il 1992 e il 1994, mentre l’attenzione internazionale era rivolta alle guerre nei Balcani, Armenia e Azerbaijan avevano firmato un cessate il fuoco sotto l’egida del Gruppo di Minsk, istituito all’interno dell’OSCE (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) composto e co-presieduto da Francia, Russia e Stati Uniti. La guerra aveva lasciato sul campo 30.000 vittime; le forze armene avevano avuto il sopravvento e avevano occupato territori anche all’esterno dell’enclave. Per l’Azerbaijan era stata una sconfitta molto dura e mai accettata che ha tenuto vivo un odio antico e dato vita a sentimenti di rivincita sul lungo periodo. 

La tregua, sorvegliata dalla Russia e malgrado alti e bassi momenti di tensione, ha retto fino a poche settimane fa. Nel corso degli anni, mentre l’Azerbaijan si rafforzava economicamente e militarmente e  rovesciava i rapporti di forza con l’Armenia, l’amara sconfitta azera del 1994 diventava sempre più intollerabile, fino a giungere a scatenare la guerra di queste ultime settimane, con la conseguente vittoria e la resa di parte dei territori occupati da più di trent’anni dagli armeni. Una vittoria resa possibile dal significativo intervento militare della Turchia, Paese membro della NATO, che, irrompendo sulla scena del conflitto ha messo fine a quella fragile tregua. 

La guerra si ferma il 10 novembre con un cessate il fuoco concordato con la Russia e sorvegliato dall’esercito russo sulle nuove linee di confine. Si tratta di un nuovo congelamento del conflitto che permette alla Russia, senza colpo ferire, di entrare a pieno titolo come arbitro e garante della sicurezza, nel cuore del Caucaso del sud. Un ruolo la cui importanza, ora ed in futuro, non sfugge a nessuno nella regione (Georgia insegna)  e tantomeno ai due Paesi coinvolti, vinti e vincitori, in termini di nuovi rapporti, legami e dipendenze da Mosca. 

La Turchia, dal canto suo, oltre ad aver dato dimostrazione della sua potenza militare e confermato i suoi legami con la Russia, rafforza  i suoi rapporti con l’Azerbaijan, Paese chiave per il transito di oleodotti dal Mar Caspio e diretti in Turchia e in Europa. Un aspetto questo che conferisce al conflitto anche una non irrilevante componente di interessi energetici, cui l’Europa non è estranea.

In questo scenario risalta purtroppo l’assenza della comunità internazionale e l’irrilevanza del ruolo dell’OSCE. Anche l’Unione europea è stata a guardare, senza riuscire ad intervenire nel suo “vicinato”,  con il quale ha preso l’impegno formale, attraverso il Partenariato orientale, di promuovere e garantire la stabilità. 

Ma forse non è ancora troppo tardi e l’Unione europea potrebbe essere ai primi posti per disegnare un percorso di ricostruzione, invertire il senso della sola logica militare e proporre un percorso duraturo di pace, inserendosi nelle tante questioni ancora irrisolte di questo conflitto. 

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