Aspettando la finanziaria e il ritorno della concertazione

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Entro fine mese il Governo dovrà   presentare la nuova legge finanziaria che traduca concretamente, con cifre e indicazioni precise, gli orientamenti contenuti nel Decreto di programmazione economica e finanziaria del luglio scorso. La proposta del Governo è attesa al varco in Parlamento, non solo dall’opposizione ma anche da settori inquieti della stessa maggioranza e dalle Istituzioni Ue, in particolare dalla Commissione europea che, nel corso dell’estate, si è già   fatta sentire insieme con la Banca Centrale, forse anche troppo, e ad ottobre dal Consiglio dei Ministri cui spetta la valutazione finale.
Alla vigilia di un dibattito politico che sull’argomento si annuncia aspro, puಠessere utile, approfittando di questa relativa calma prima della tempesta, richiamare alcuni elementi europei che peseranno sulla decisione del Governo. Sono quelli che vengono additati come «vincoli» e come tali mal sopportati da molti. E’ il caso di un ministro in carica, ancora poco avvezzo alla dimensione europea, che ha rivendicato la «sovranità  » dell’Italia contro l’ingerenza di Bruxelles o di quanti hanno colto l’occasione per denunciare ancora una volta una pretesa invadenza del «tecnocrati» europei. Tutta musica per le orecchie della passata maggioranza e di quel Tremonti che nella scorsa legislatura aveva espresso posizioni analoghe. Facile prevedere che la confusione che ne seguirà   renderà   difficile individuare le responsabilità  , nel bene e nel male, delle decisioni che saranno prese, come sarebbe regola elementare per una democrazia che si rispetti.
Limitiamoci qui a chiarire quali sono le responsabilità   delle Istituzioni europee, a cominciare dalla Commissione europea, guardiana dei Trattati e del rispetto delle decisioni condivise a livello europeo. Tra queste, il «Patto di stabilità   e di crescita» convenuto dai Paesi dell’UE, e l’Italia tra questi fin dall’inizio, per salvaguardare l’economia europea, la stabilità   della moneta unica e le dinamiche di crescita. Per raggiungere questo obiettivo vennero fissati dei parametri di riferimento, in particolare il non superamento della soglia del 3% del deficit nazionale sul Prodotto interno lordo (PIL) fino a raggiungere un sostanziale pareggio e il rientro tendenziale del debito verso il 60% del PIL. Questa la decisione sottoscritta da oltre un decennio dall’Italia e riconfermata periodicamente e ancora di recente dal Governo Berlusconi. Adesso è venuto il momento di cominciare a rispettare l’impegno, pena la caduta della nostra ancora fragile credibilità   internazionale non solo agli occhi dell’UE ma anche dei mercati che ci osservano con crescente perplessità  . Purtroppo partiamo da valori drammaticamente distanti da quelle soglie e non solo, come spesso ci si limita a dire, per lo sforamento al 4% del nostro deficit, ma soprattutto per il debito consolidato cresciuto oltre il 107% del PIL rispetto al 60% che ci siamo impegnati progressivamente a raggiungere.
A fronte di questi «vincoli» – che ci siamo dati e nessuno ci ha imposto – due variabili positive: un gettito fiscale più alto del previsto e una crescita economica superiore all’1,5% che, seppure distante da quella di altri Paesi dell’Ue, potrebbe dare respiro alla manovra finanziaria. Trascurando il dibattito un po’ sterile su a chi attribuire il merito di queste due buone notizie (che sembrano ancora una volta frutto dello»stellone» che protegge l’Italia), resta importante capire che durata possano avere nel tempo, se siano cioè fenomeni congiunturali destinati ad esaurirsi a breve o dinamiche di più lungo periodo. Nel primo caso sarebbe bene restare prudenti e non mollare il freno del risanamento, nel secondo si potrebbe rischiare di premere l’acceleratore dello sviluppo. La difficoltà   per il Governo sta tutta in questo sentiero stretto tra un risanamento indispensabile dell’enorme debito consolidato che cresce ogni volta che la Banca Centrale aumenta i tassi di interesse per frenare l’inflazione e uno sviluppo di cui il Paese ha bisogno per rafforzare la sua competitività   e creare occupazione, condizione imprescindibile per salvaguardare i livelli di protezione sociale, il futuro del nostro sistema pensionistico e il consenso dei cittadini.
Non stupisce – anzi, era ora – che chiuso in questa tenaglia il Governo abbia manifestato una grande apertura alle parti sociali per un ritorno, seppure in condizioni e con criteri diversi, alla concertazione come passaggio obbligato verso una decisione di cui alla fine è titolare il Governo e il nostro Parlamento. A ben vedere, semplice esercizio di democrazia partecipativa, la stessa che l’Unione europea stimola con il «dialogo sociale» e che è promossa nel testo della futura Costituzione dell’UE.
A patto perಠche tanto a Bruxelles come a Roma la concertazione non si limiti a far digerire i «tagli» in nome della stabilità   ma affronti anche gli «investimenti» per lo sviluppo, nell’integrale rispetto di quel Patto sottoscritto non solo per la stabilità   ma anche per la crescita. E qui forse è a Bruxelles e a Francoforte, oltre che a Roma, che bisognerebbe finalmente ricordarsene.

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