Compirà dieci anni a dicembre l’Accordo di Parigi venuto in soccorso alla salvaguardia di un Pianeta ormai gravemente malato: da allora molte cose sono capitate nel mondo sul versante del surriscaldamento climatico e sulle politiche ambientali per contrastarlo e, almeno, contenerlo entro una soglia sostenibile.
Protagonista in prima linea su questo fronte bollente si era mossa con coraggiosa determinazione l’Unione Europea con l’adozione nel 2019 del “Green deal”, il Patto verde per la transizione ecologica, dandosi come obiettivo ambizioso l’azzeramento dei gas serra entro il 2050.
Strada maestra per arrivarci un processo accelerato di decarbonizzazione nelle attività produttive, con la progressiva riduzione delle energie fossili, carbone petrolio e gas.
E di strada da allora se n’è fatta molta, anche se non ancora abbastanza, dentro un mondo in difficoltà a convergere verso l’obiettivo condiviso, in una stagione di forte accelerazione della competizione economica e di esplosione di conflitti, non senza impatto sulle politiche ambientali.
In queste politiche, Cina e Stati Uniti tardano nella realizzazione o divergono, come nel caso dell’Amministrazione Trump 1 e 2 che ha rinnegato l’Accordo di Parigi; sono in obiettiva difficoltà i Paesi in cerca di sviluppo, confrontati alle loro limitate energie disponibili per i necessari processi di industrializzazione e non favoriscono certo una transizione ambientale i Paesi che detengono importanti giacimenti di energie fossili, petrolio e gas in particolare.
Paradossale il caso della Russia, ricca di energie fossili, nel tempo fatte circolare a prezzi ridotti (ne ha tratto non poco beneficio in particolare la Germania) e, dopo l’aggressione all’Ucraina, potente stimolo per l’Unione Europea (ma non per la “amica” Cina) ad accelerare nella transizione ecologica, rinunciando alle energie fossili russe nel quadro delle sanzioni in progressiva adozione.
Si inserisce in questo contesto, anche più complesso di quanto evocato, un’opzione energetica favorevole alla fonte nucleare da sviluppare dove già esiste, da avviare nei Paesi che non ne dispongono, come l’Italia, o in Paesi, come la Germania, dove le centrali nucleari erano state recentemente chiuse.
Contribuisce all’invocato ritorno del nucleare anche l’insufficiente quantità di energia fornita da altre fonti alternative ai fossili, tra l’altro non sempre disponibili con continuità e sicurezza, come ricordato anche dal recente blackout elettrico in Spagna e Portogallo il mese scorso e non solo.
È del 12 giugno il nuovo “Programma indicativo nucleare” della Commissione europea che, per la produzione di energia nucleare, prevede la necessità di investimenti per circa 241 miliardi di euro entro il 2050: in questo documento la Commissione europea valuta che il nucleare rappresenti un pilastro fondamentale per raggiungere l’obiettivo del 90% di produzione elettrica da fonti decarbonizzate entro il 2040.
A confortare questi orientamenti si è formata una “Alleanza nucleare”, lanciata nel 2023 dalla Francia, forte di 56 centrali nucleari che producono il 76% dell’elettricità nazionale, e che riunisce oggi oltre la metà dei Paesi UE, con Polonia, Belgio, Olanda, Ungheria e altri. Ne restano fuori la Spagna che pure ha il nucleare e la Germania che al nucleare sta ripensando.
Nell’Alleanza nucleare europea è entrata ufficialmente, nei giorni scorsi, anche l’Italia dopo avervi partecipato solo come Paese osservatore. La decisione del governo si stava preparando da tempo, senza che un dibattito pubblico l’abbia accompagnata.
Non sorprenderà che l’esplosione di un nuovo conflitto in Medio Oriente, con la guerra tra Israele e Iran e la conseguente pressione sui prezzi dell’energia fossile, possa aver dato anche in Italia una spinta verso il nucleare, un motivo in più per affrontare il tema tenendo conto del nuovo quadro geopolitico.
Non è senza importanza annotare che, malgrado le ricorrenti pretese di far prevalere gli interessi della “Nazione”, tutta questa vicenda si sta sviluppando nel quadro di un’intesa europea, non solo per la maggioranza di governi dei Paesi UE favorevoli all’energia nucleare, ma anche per il ruolo svolto dalla Commissione europea, alle prese con una revisione del suo ambizioso “Piano verde”, tendente sempre più ad un “verde pallido”.
Un pallore che sembra essere un sintomo ulteriore di un Pianeta malato e pericolosamente trascurato.