2015: annus horribilis per l’UE

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Il 2015 è stato per l’Unione Europea un anno difficile, con le ombre che hanno prevalso sulle luci. Queste ultime sono venute più dai suoi cittadini che dalle Istituzioni e dai governi europei, in costante affanno e con poca capacità di trovare soluzioni ai molti problemi che si sono andati accumulando. Con un’eccezione di rilievo: a Parigi, a dicembre, anche grazie all’impulso dato dall’UE, il Vertice ONU sul clima ha raggiunto un accordo importante che potrebbe contribuire a contrastare il surriscaldamento climatico del pianeta dopo anni di politiche irresponsabili.

Un’altra luce, tra tutte, si è imposta all’attenzione degli osservatori: la capacità di mobilitazione popolare in risposta agli atti terroristici che hanno colpito l’UE e al dramma del milione di migranti giunti nell’Unione e spesso accolti dalla sola solidarietà di molti cittadini europei, a testimonianza di una comunità che esiste e resiste nonostante tutto.

Certo bisogna anche dire che l’anno appena trascorso ha riservato all’UE una contemporanea densità di problemi come non si vedeva da tempo, trovando Istituzioni indebolite, tanto a livello nazionale che europeo, una classe dirigente inadeguata, risorse rese scarse da una crisi economica e sociale non ancora debellata: il tutto in un mondo segnato da un caos fuori controllo, senza una reale capacità di governo globale.

La crisi greca

La crisi economica e finanziaria esplosa a fine 2008, e proseguita fino a oggi, ha ovunque provocato importanti erosioni al welfare europeo e indebolito le maggioranze politiche al governo, con poche eccezioni, come nel caso della Germania. Chi non ha fatto eccezione e ha anzi pagato cara la crisi, per responsabilità non solo sue, è stata la Grecia, costretta a tornare tre volte alle urne nel 2015 per chiedere al popolo greco un difficile consenso a supporto di riforme dolorose chieste dalle Istituzioni comunitarie. Alexis Tsipras ha dovuto arrendersi a Bruxelles per rialimentare le casse vuote della Grecia grazie a un accordo in pieno agosto che avrebbe consentito al suo Paese di galleggiare per il resto dell’anno, senza che questo comportasse una soluzione definitiva agli equilibri finanziari della Grecia. Un tema che vedremo tornare nei mesi prossimi, magari in compagnia di altri Paesi, come la Finlandia, sempre che non scivolino indietro i Paesi iberici e, incrociamo le dita, l’Italia.

La risposta al terrorismo fondamentalista

Gennaio 2015 ha inaugurato per l’Europa un’altra stagione del terrorismo di matrice islamica. Dopo gli attentati che avevano insanguinato Madrid nel 2004 e Londra nel 2005, è stata la volta di Parigi a due riprese, prima a gennaio con l’attacco a Charlie Hebdo e, a novembre, con la strage al Bataclan di Parigi. Le importanti mobilitazioni popolari che ne sono seguite non hanno occultato lo smarrimento di cui ha fatto prova l’Unione Europea e le risposte fuori misura delle autorità politiche francesi.

Lo smarrimento delle Istituzioni europee è almeno in parte attribuibile ai limitati poteri dei quali dispongono in materia di sicurezza, dal momento che non sono nemmeno in grado di promuovere e coordinare servizi comuni di intelligence, figuriamoci interventi militari per i quali non hanno alcuna competenza. Diverse invece le considerazioni a proposito delle risposte del governo francese, in casa propria e fuori. In casa propria, dopo gli attentati a Parigi del 13 novembre, il Presidente François Hollande , sotto la spinta emotiva provocata dal terrorismo stagista e alla vigilia di una difficile competizione elettorale, ha dichiarato lo “Stato di urgenza” chiedendo al Parlamento di prolungarne la durata e di costituzionalizzarne le relative misure. Non meno inquietante che la Francia abbia formalmente annunciato al Consiglio d’Europa possibili deroghe alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in particolare per ridurre le garanzie dei diritti individuali a fronte delle esigenze dello Stato in nome della sicurezza nazionale.

Fuori dalla Francia, si è assistito a precipitosi e poco concludenti interventi militari in Siria e ad altrettanti passi indietro nei confronti del dittatore Assad.

Migranti: UE tra accoglienza e paura

La contabilità tenuta dall’ONU sui movimenti migratori verso l’Europa parla di circa un milione di persone arrivate nel 2015: non un’invasione rispetto all’oltre mezzo miliardo di abitanti dell’UE, ma nemmeno un evento banale soprattutto in considerazione delle condizioni drammatiche di questi flussi e delle prospettive future. Al passaggio drammatico con i barconi nel Mediterraneo si sono aggiunti movimenti via terra dai Balcani e, soprattutto, si è andata rivelando la dimensione crescente dello snodo turco, con un impatto pesante sulla Grecia, come prima era stato – e continua a essere – per l’Italia.

Al proprio interno, l’Europa ha oscillato tra il dovere dell’accoglienza e la paura dei suoi governanti: tra questi ultimi si sono distinti in particolare quelli dei Paesi dell’est, dimentichi della solidarietà di cui avevano beneficiato – e ancora beneficiano – nell’Unione Europea e ossessionati dalla loro presunta sovranità, ritrovata dopo decenni di sottomissione a Mosca e che ora sentono minacciata da Bruxelles.

Ha sorpreso non poco in questa congiuntura l’atteggiamento di Angela Merkel. La Cancelliera tedesca dopo un breve tempo di attesa, com’è sua consuetudine, ha dichiarato di voler aprire le porte ai profughi, siriani di preferenza, e senza mettere limiti all’accoglienza. Purtroppo le sue buone intenzioni si sono presto scontrate con il disagio dei suoi cittadini e i timori dentro il suo partito, preoccupato per i molti appuntamenti elettorali, regionali nel 2016 e nazionale nel 2017. Un disagio che è durato poco tempo e che è stato provvisoriamente risolto dal Congresso della CDU a dicembre, dove la Cancelliera ha mantenuto il suo rifiuto di fissare un tetto per l’accoglienza, accompagnandolo con misure destinate a rallentare i flussi, in particolare grazie a un discutibile negoziato con la Turchia.

Elezioni e referendum nell’UE

Nell’Unione Europea le numerose consultazioni elettorali che l’attraversano sono normale alimento di democrazia e spunti per la sua evoluzione futura. Così è avvenuto anche nel 2015, anno ricco di elezioni e referendum, mentre altri se ne annunciano nei mesi prossimi.

Delle elezioni greche, tre nel corso dell’anno, si è detto e non è sicuro che siano state sempre un esercizio di democrazia del tutto libero.

Altre elezioni importanti hanno delineato un nuovo profilo politico dell’UE.

E’ stato il caso a due riprese per la Polonia, dove le elezioni presidenziali di maggio hanno annunciato un cambio di passo politico in favore della destra, confermato nelle elezioni politiche di ottobre, approdate poi a un governo dal forte sapore autoritario, come già era accaduto nella vicina Ungheria. Questa Polonia sarà un freno per una maggiore integrazione dell’UE, come già hanno ampiamente testimoniato le tensioni con Bruxelles sul tema dei migranti e sulle prospettive di dialogo con la Russia.

Importanti sono state anche le consultazioni elettorali in Spagna: prima l’improbabile referendum sull’indipendenza della Catalogna e, a dicembre, le elezioni politiche. In entrambi i casi annunci d’instabilità per un Paese di peso equivalente alla Polonia, con tutt’altre caratteristiche politiche, caratterizzate da una forte voglia di cambiamento, stimolanti e, a un tempo, rischiose per l’UE.

Per la Francia, in dicembre, erano “solo” elezioni amministrative, ma non per questo non sono state un terremoto, annuncio di un altro probabile sisma alle elezioni presidenziali del 2017.

E sarà proprio il 2017 l’anno di altri importanti appuntamenti elettorali: in Francia, dove il socialista François Hollande dovrà vendere cara la pelle, in Germania, dove Angela Merkel sembra per ora poter rimanere alla guida della Germania e nel Regno Unito, dove l’azzardo referendario di David Cameron sulla permanenza nell’UE potrebbe provocare ulteriori scossoni a un’Europa già traballante.

UE-USA: alleati e amici, non complici

La storia dei rapporti dell’Europa con l’America ha avuto spesso il sapore di un amore contrastato, dell’una verso l’altra e viceversa. Oscillazioni che continuano nel tempo e che si sono ripresentate nel 2015 su molti versanti, in particolare nei rispettivi rapporti con la Russia, per l’UE un vicino ingombrante, per gli USA un avversario antico, oggi di ritorno. La crisi in Ucraina ha obbligato i due partner, da una parte e dall’altra dell’oceano, a trovare un accordo sulle sanzioni imposte alla Russia e pagate care più dall’UE che non dagli USA.

Tutto questo mentre proseguiva, sulle due sponde dell’Atlantico, un negoziato per un nuovo accordo commerciale, noto con una sigla impronunciabile, TTIP (Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti). Si è trattato di un negoziato, avviato in sordina, rimasto a lungo semi-clandestino e contestato in misura crescente da molte componenti della società civile, mano a mano che se ne conoscevano i contenuti. L’obiettivo è quello di un accordo tra due importanti aree economiche in perdita di velocità, soprattutto per l’UE, mentre si allungano le ombre della Cina e della Russia nella competizione non solo economica, ma ancor più politica, se non addirittura militare.

Le divergenze tra i due partner sono rilevanti, soprattutto in materia sociale e nella difesa dei consumatori, oltre che per l’irrisolto problema di chi sarà abilitato a dirimere contenziosi che si annunciano numerosi. Il negoziato avrebbe dovuto concludersi nel 2014, sarà un miracolo se si riuscirà a chiudere nel 2016: l’UE ha ancora un po’ di tempo per non fare errori.

L’UE nel caos del mondo

L’UE nel 2015 è spesso apparsa come una barca sballottata nella tempesta, in un mondo di turbolenze crescenti. Molti si sarebbero aspettati di vederla navigare più sicura, affrontare con più determinazione ed efficacia le ondate che le si rovesciavano contro. Purtroppo così non è stato, nessuno al timone in grado di dirigerne la rotta oppure troppi che quel timone si contendevano, da una parte le Istituzioni comunitarie troppo deboli, dall’altra un Paese come la Germania troppo forte per rinunciare a una pretesa vocazione egemonica in Europa, ma anch’essa troppo debole per imprimere alla barca una direzione sicura.

Con i molti conflitti armati sarebbe stata necessaria per l’UE una politica estera e di sicurezza comune, rimasta nel Trattato di Lisbona e negli interventi successivi allo stato di dichiarazioni velleitarie, appena confortate da accordi di cooperazione con Paesi terzi, grazie ai partenariati sottoscritti.

L’obiettivo della pace, oggi a rischio anche sul nostro continente, conferma il bisogno dell’Europa, di un’altra Europa, oggi da riprogettare perché diventi credibile agli occhi dei suoi cittadini.

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