Quale futuro per l’Europa dell’accoglienza

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Dopo oltre cinquant’anni di integrazione europea e di progressiva abolizione delle frontiere interne dell’Unione europea torna a farsi infuocato il dibattito sulla necessità   non solo di proteggere l’UE alle sue frontiere esterne dall’ingresso di cittadini in provenienza da Paesi terzi, ma anche di rivedere le regole per il passaggio alle frontiere interne per gli stessi cittadini comunitari.E non si tratta di un «caso italiano» soltanto, anche se quello che accade in questi giorni nel nostro Paese comporta elementi particolarmente inquietanti e spesso anche precipitosi ed approssimativi.
Per cogliere le dimensioni del problema, puಠessere utile fare qualche passo indietro e cominciare col ricordare che il Trattato di Roma del 1957 fondava il processo di integrazione europea su quattro fondamentali libertà   che si sarebbero poi progressivamente realizzate, anche se con ritmo ed intensità   diversi. Abbastanza rapidamente giunsero a regime la libertà   di circolazione dei beni, più tardi quella dei capitali e dei servizi e infine, non senza deroghe e dilazioni, la libera circolazione delle persone.
Il 21 dicembre 2007, con l’adesione al Trattato di Schengen di nove dei dieci Paesi entrati nell’UE nel 2004 la quasi totalità   dei Paesi dell’Unione rinunciava al controllo sistematico alle proprie frontiere esterne per i cittadini comunitari. Dall’accordo rimanevano provvisoriamente fuori, per ragioni diverse, tre Paesi: Cipro, Bulgaria e Romania.
Viene da pensare che dati proprio dalla fine del 2007 il raffreddamento di una dinamica di apertura che aveva caratterizzato l’atteggiamento dell’Unione europea sul fronte sempre più caldo della mobilità   interna e dei flussi migratori dall’esterno. E questo, non a caso, in coincidenza con una transizione di responsabilità   in materia dai governi nazionali a una più marcata competenza europea. Appaiono lontane le aperture del Consiglio di Tampere del 1999, rilanciate dal Programma dell’Aja del 2004. E’ di quello stesso anno un’importante Direttiva che raccolse in un unico testo il complesso corpus legislativo esistente a proposito del diritto di libera circolazione maturato fin dall’inizio degli anni Sessanta.
Certo da allora molte cose sono cambiate: molti nuovi Paesi sono stati accolti nell’UE e non sempre con un alto gradimento da parte dei cittadini dei vecchi Paesi membri, altri Paesi stanno negoziando con crescenti difficoltà   la loro adesione, lo choc dell’attentato alle Torri gemelle di New York ha alimentato conflittualità   crescenti nel mondo, il mercato del lavoro europeo è sotto tensione e crescono atteggiamenti di intolleranza verso lo straniero.
Tutto questo a fronte di una presenza di immigrati extracomunitari nell’UE che si aggirano sui venti milioni rispetto a una popolazione totale di mezzo miliardo di persone: una dimensione tutto sommato contenuta e in grandissima parte funzionale allo sviluppo dell’economia europea. Ma su questi dati sembrano prevalere, nella percezione dell’opinione pubblica, il fenomeno non indifferente dell’immigrazione clandestina e, più ancora, i ripetuti episodi di criminalità   cui danno grande evidenza con toni spesso allarmisti i media nostrani.
Non stupisce che in questo clima assuma rilievo particolare una recente proposta di Direttiva europea sulla detenzione e il rimpatrio degli immigrati irregolari per la quale è atteso un pronunciamento del Parlamento europeo all’inizio di giugno. Si tratta di una deliberazione particolarmente importante perchà© vede per la prima volta questa delicata materia sottoposta a una procedura di codecisione tra Consiglio dei ministri e Parlamento europeo: in altre parole, il tema dell’immigrazione fa il suo ingresso tra le politiche comuni europee che avranno ulteriori sviluppi con l’entrata in vigore nei prossimi mesi del Trattato di Lisbona.
Tra i punti sensibili della Direttiva quello del periodo di detenzione per gli immigrati illegali fino a 18 mesi, i termini definiti per il rimpatrio volontario oltre il quale scatta l’espulsione automatica con il divieto di rientro per gli espulsi sull’intero territorio dell’Unione. Misure per un verso non facili da eseguire e, per un altro, da rendere compatibili con il diritto individuale alla difesa e al ricorso oltre che da opporre alla deriva di espulsioni collettive.
Mobilitazioni sono in corso in tutta Europa contro questa svolta, giudicata da molti – chiese, sindacati, organizzazioni non governative, giuristi – o inefficace o, peggio, lesiva dei diritti umani e contraria alla vocazione dell’Europa alla solidarietà   e all’accoglienza.
Ancora una volta siamo di fronte a problemi che interrogano la nostra coscienza e che sarà   bene affrontare con rigore e lucidità  , magari anche chiedendoci se si possano scindere tra di loro le quattro nostre libertà   di circolazione privilegiando quella dei capitali, dei beni e dei servizi a spese di quella delle persone. Potrebbe esserne un esempio il caso Italia-Romania: a molti sembrano tanti, troppi i romeni tra di noi, ma pochi fanno caso alle 23.000 aziende italiane registrate in Romania. Il mercato globale è anche questo: il diritto serve a regolarlo o almeno a ridurne gli effetti devastanti che sono davanti ai nostri occhi.
Sarà   bene che lo ricordi l’Unione europea, nata sulle macerie dei conflitti del secolo scorso, e non lo dimentichi l’Italia che del diritto fu una delle culle, anche se da allora molte cose sono cambiate e non sempre in meglio.

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