Il tema delle migrazioni verso l’Europa, non data da ieri, ma viene da molto più lontano. Affonda le sue radici nella stessa formazione del nostro continente, la cui popolazione è il risultato di flussi migratori che hanno contribuito alla nostra civiltà, quella di cui andiamo fieri, dimenticando però spesso come questa si sia andata costruendo grazie a secolari flussi migratori.
Ricordiamo almeno quelli che, nel secolo scorso, dopo aver interessato gli italiani verso le Americhe, si sono poi orientati verso gli altri Paesi europei, tra l’altro proprio quelli che furono i fondatori delle prime Comunità europee a inizio degli anni ‘50.
Più vicino a noi, negli ultimi anni, l’Unione Europea ha registrato immigrazioni importanti, con alcuni picchi che abbiamo in memoria: quello dell’emigrazione siriana nel 2015 e quello ucraino a seguito dell’invasione russa nel 2022. Quest’ultima stimata ad oggi attorno a 8 milioni di persone, con ulteriori ondate che potrebbero riprendere con l’aggravarsi del conflitto.
Questi due flussi hanno ricevuto una risposta positiva nell’UE: nel 2015 con l’apertura delle frontiere da parte della Germania in particolare, nel 2022 con una generosa accoglienza da parte di molti Paesi UE, in particolare quelli confinanti con l’Ucraina in guerra.
A fronte di questi picchi i numeri dell’immigrazione quotidiana verso l’UE, e l’Italia in particolare, non sembra configurare un’emergenza insostenibile, anche se non va sottovalutato l’incremento di ingressi irregolari nell’UE, aumentati del 77% nei primi dieci mesi di quest’anno rispetto al 2021, aumento però ripartito a più 59% nella rotta del Mediterraneo centrale e a più 168% sulla rotta dei Balcani occidentali.
Per rispondere a questi movimenti il Consiglio dei ministri UE ha tenuto una riunione straordinaria, sollecitata in particolare dall’Italia, lo scorso 25 novembre. Non era la prima e non sarà l’ultima, visto il costante ricorso al rinvio: era del 2020 il Patto europeo per l’emigrazione, del giugno 2022 la raccomandazione del Consiglio europeo, a guida francese, di ridistribuire volontariamente i flussi. Di risultati se ne sono visti pochi e nel settembre scorso la Commissione europea è tornata alla carica con nuove proposte, adesso affidate alla buona volontà dei governi nazionali con la prospettiva di tornare sul tema a dicembre.
Intanto non si placano le tensioni tra Francia e Italia dopo la vicenda della nave Ocean Viking, costretta ad approdare al porto di Tolone, da dove peraltro un numero importante di migranti saranno fatti rientrare nei rispettivi Paesi di provenienza e mentre viene organizzato un blocco dei flussi tra Francia e Gran Bretagna.
A questo punto la parola-chiave sembra essere “rimandare”: rimandare a casa loro i migranti, rimandare in casa nostra decisioni che sono all’ordine del giorno da anni, con il risultato di alimentare un limbo di migranti incerti sul loro futuro, intrappolati da misure diversamente interpretate. E questo perché non vi è una capacità giuridica da parte dell’Unione Europea di definire un quadro normativo comune, che si tratti dei respingimenti, della redistribuzione nei Paesi membri, della revisione della concessione dell’asilo o dell’applicazione del “codice di buona condotta” sottoscritto dalle ONG che, nel Mediterraneo, garantiscono il salvataggio a persone in pericolo.
Ritorna anche la spinta a cercare soluzioni che trattengano i candidati all’emigrazione nei Paesi confinanti con l’UE, come è avvenuto nel caso della Turchia e del Marocco, ma con costi finanziari elevati e pesanti violazioni dei diritti delle persone, come ci ricordano i comportamenti della Libia.
Per l’UE non è più tempo di “rimandare” le decisioni, piuttosto di “migrare” verso una politica comune per l’accoglienza di flussi regolari e l’integrazione dei migranti nelle nostre società.