Al Consiglio europeo di Bruxelles della settimana scorsa è andata come previsto. Non bene, a voler essere ottimisti; mortificante, a volerla dire tutta.
Non bene, perché si va ripetendo ormai da troppo tempo il rito del rinvio, mentre la crisi incalza, i Paesi delle periferie d’Europa, a sud e a est, hanno l’acqua alla gola e nuovi attori dell’economia mondiale accrescono i loro spazi di influenza e l’occupazione di fette consistenti dei mercati.
Mortificante non solo perché i Paesi UE più ricchi si sono battuti a morte per la riduzione del bilancio comunitario 2014-2020 per un misero 0,1% del PIL europeo da sottrarre ad un bilancio che stagna all’1% dello stesso PIL; ma anche perché, com’era fin troppo prevedibile, Germania, Olanda, Svezia, Finlandia hanno dato manforte alla Gran Bretagna, Paese campione di euroscetticismo, che da sempre rema contro il processo di integrazione europea.
Fa sempre più riflettere la prevedibilità delle dinamiche europee, la loro incapacità a produrre qualcosa di nuovo, a sorprenderci con qualche decisione coraggiosa, a dare di tanto in tanto qualche colpo di acceleratore, a fare uscire l’UE dalla paralisi e da un sonno che alla fine può generare mostri.
Le numerose faglie che stanno rendendo fragile la coesione europea si sono intrecciate: da una parte i Paesi dell’eurozona, dall’altra quelli ancora fuori. I primi spaccati al loro interno tra i “rigoristi” del nord e i “solidaristi” del sud; gli extra-euro spaccati tra i Paesi forti, o presunti tali, come Gran Bretagna e Svezia, e quelli ancora fragili dell’Europa centrale e orientale, che ci hanno raggiunti nello scorso decennio e che, dopo la lunga anticamera imposta loro dopo il 1991, si stanno chiedendo se sia questa l’Unione della pace e della solidarietà che aspettavano.
Dentro questo marasma, cercano di muoversi almeno in parte d’intesa due Paesi importanti: la Francia di Hollande che chiede un bilancio in grado di promuovere la crescita e aiutare l’UE a uscire dalla crisi e l’Italia che sta timidamente cercando di temperare il solo rigore con politiche di stimolo allo sviluppo e all’occupazione. Entrambi i Paesi convergono nel tentativo di salvare le risorse per l’agricoltura e quelle destinate alla coesione e ai fondi strutturali.
Peccato che a fare le spese di quest’alleanza siano le politiche del futuro, in particolare quelle della ricerca e della tecnologia: due Paesi fondatori, alleati per difendere il passato, timidi nell’affrontare il futuro.
E’ vero che l’Italia parte svantaggiata nel negoziato: pesa l’eredità lasciata dal governo Berlusconi, maldestro negoziatore nel 2005 per il settennio che si conclude a fine 2013 e non aiuta il tasso di frode e la scandalosa inutilizzazione dei fondi da parte dell’Italia. Monti a Bruxelles ha finalmente alzato la voce: adesso c’è da sperare che il negoziato si chiuda a inizio 2013, prima della tormenta elettorale italiana.
Resta il sospetto che sul futuro negoziato peserà non poco la scadenza elettorale tedesca del prossimo settembre: ne sanno qualcosa i greci che continuano ad aspettare l’ossigeno di Bruxelles e i negoziatori dell’unione bancaria, oggetto di rinvii da parte della Germania, con grande gioia della Gran Bretagna.
Dell’Europa-tartaruga si è detto più volte; viene da sperare adesso nell’Europa-calabrone, un animale che per le leggi della fisica non dovrebbe potersi levare in volo eppure riesce a volare. Forse è per questo che qualcuno ha detto che “l’Europa è un miracolo”. Speriamo che sia così.