UE: dalle parole ai fatti

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È risaputo che spesso tra le parole e i fatti c’è di mezzo il mare, per l’Unione Europea quello Mediterraneo in particolare. Lo farebbero pensare due fronti caldi dell’UE, con problemi diversi ma intrecciati tra di loro, come il problema dei flussi migratori e quello della tensioni politiche ai nostri confini.

Su quest’ultimo versante restano tese le relazioni con due sponde del Mediterraneo, quello meridionale con la Libia, in particolare ma non solo, e quello orientale con la Turchia: turbolenze su cui sono state spese tante parole senza che ne siano seguiti molti fatti concreti. Eppure su entrambe le sponde covano conflitti ad alto rischio per la pace nella regione, dove  prendono origine – o potrebbero, come nel caso turco – importanti flussi migratori difficili da governare e per i quali continuano a mancare soluzioni europee.

Anche in questa congiuntura si avverte quanto sia grave la mancanza di una politica estera comune, senza la quale le buone intenzioni e le ripetute dichiarazioni di principio svaniscono nel nulla. Accade anche a proposito della politica migratoria, ancora troppo competenza solo nazionale con irrisolti tentativi di trovare politiche comunitarie condivise.

Dopo il “Discorso sullo Stato dell’unione” di Ursula von der Leyen del 16 settembre davanti al Parlamento c’era molta attesa per l’annunciato “Patto sui migranti”, puntualmente presentato mercoledì scorso. Nel suo intervento a Strasburgo la Presidente della Commissione aveva suscitato speranze a proposito del “superamento” dell’Accordo di Dublino, quello che fa pesare sul Paese UE di primo approdo l’accoglienza dei migranti. Sarebbe stato coerente con le sue parole: “Adotteremo un approccio umano e umanitario. Salvare vite umane non è un’opzione facoltativa. E quei Paesi che assolvono i loro doveri giuridici e morali o sono più esposti di altri devono poter contare sulla solidarietà di tutta l’Unione Europea”.

Il testo adottato dalla Commissione sembra molto meno coraggioso di quelle parole e già bisogna sforzarsi per considerarlo un primo passo verso il traguardo annunciato. La regola del “primo approdo” resta, anche se con qualche correttivo: in caso di particolare pressione migratoria un Paese può fare ricorso al “meccanismo di solidarietà obbligatoria” con l’accoglienza di una quota di richiedenti asilo o con la possibilità, per chi non consentisse queste forme di accoglienza, di offrire un sostegno “materiale” ai Paesi di “primo ingresso”, in particolare contribuendo ai rimpatri. Una soluzione quest’ultima che agli italiani potrebbe far venire in mente l’infelice scambio degli anni ’50 con il Belgio tra “migranti e sacchi di carbone”.

Una proposta della Commissione che già parte da un compromesso di basso profilo e che rischia di essere peggiorato nel corso del difficile  negoziato che si trascinerà tra i governi nazionali, come già si capisce dalle prime reazioni del Premier ungherese, Viktor Orban d’intesa con i suoi complici della banda di Visegrad (Polonia, Slovacchia e Repubblica ceca), cui si aggiunge la vicina Austria.

Il governo italiano ha oscillato tra l’apprezzamento per questo “primo passo” e la delusione per il mancato “superamento” dell’Accordo di Dublino che continuerà a dare fiato a Paesi sovranisti, membri dell’Unione Europea solo quando distribuisce fondi comunitari e nazionalisti quando si tratta di mostrare solidarietà non solo a parole. Una macchia che va ad aggravare quella relativa all’attacco alla democrazia che, con la mancata solidarietà, sarebbe adesso ora di prendere seriamente in considerazione per condizionare l’accesso al bilancio dell’UE. 

Anche questi sarebbero fatti, non solo parole. 

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