Stati Uniti e Europa in un mondo che cambia

1108

Il calendario politico ha concentrato in tre giorni due eventi di portata mondiale: il 6 novembre le elezioni presidenziali americane e l’8 novembre il cambio della guardia in Cina. Due esiti che condizioneranno in misura rilevante la nostra vita quotidiana: nel primo caso per i prossimi quattro anni, nel secondo addirittura per dieci, salvo naturalmente sorprese in una Cina piena di contraddizioni e forse non così stabile come si tende a credere.

A fronte di questi due eventi ha particolarmente colpito l’assenza dell’Europa, in particolare nel dibattito americano, quello cinese restando occultato nelle segrete stanze del Partito comunista e della sua nomenklatura.

Quattro anni fa Barack Obama era arrivato al potere accompagnato dalla simpatia dell’Europa, certificata anche da un precoce Nobel per la pace, un incoraggiamento a lasciarsi alle spalle la politica estera unilaterale di G.W. Bush e a promuovere un mondo pacifico.

Purtroppo non è andata così, nonostante il ritiro delle truppe americane dall’Iraq e l’annuncio di quello dall’Afghanistan nel 2014, due Paesi per nulla pacificati che  per gli elettori americani ricordano il sapore amaro della sconfitta USA in Vietnam. Sembrava che dopo il discorso del Cairo del giugno 2009 Obama avrebbe potuto imporre una svolta alle difficili relazioni con il mondo musulmano e l’avvento delle “primavere arabe” in modi diversi sostenute, dall’Egitto alla Libia,  dall’Amministrazione USA, parvero in un primo tempo confermarlo. Un clima che non è durato a lungo con la contrastata strada del processo democratico e l’irruzione in quei Paesi dell’estremismo islamico. Non molto meglio è andata con l’infinito conflitto israelo-palestinese che Obama è appena riuscito a raffreddare, trattenendo Israele dal suo minacciato intervento in Iran né con il ritorno sulla scena internazionale della Russia di Putin e il ripristino della sua influenza nel Caucaso del Sud, in Ucraina e nell’area mediorientale.

Certo l’Amministrazione Obama, appena insediata, ha dovuto fare i conti con l’esplosione in casa propria della crisi finanziaria, rapidamente esportata in Europa, e con la crisi economica indotta, il crollo dell’occupazione oggi in lento recupero e la forte penalizzazione del ceto medio americano. Tutti elementi che hanno costretto il “gendarme del mondo” a ripensare anche la propria politica estera e di sicurezza e a commisurarla alle reali risorse disponibili, tenuto conto anche dell’enorme debito pubblico americano, detenuto in misura inquietante dalla Cina.

Ed è soprattutto l’emergenza della potenza economica, commerciale e militare dell’Asia (dove le spese militari stanno per superare quelle dell’Europa), che ha calamitato lo spostamento degli USA dall’asse transatlantico a quello verso i Paesi del Pacifico, in previsione di una caduta della produzione mondiale occidentale nel 2025 del 15% (dal 55% al 40%) e una corrispondente crescita di quella asiatica del 14% (dal 24% al 38%).

In questo scenario l’Europa, pur restando ancora agli occhi di molti americani un esempio per il suo profilo sociale e culturale, brilla per la sua irrilevanza geopolitica e per la sua incapacità ad affrontare in modo coordinato ed efficace la crisi economica e a promuovere politiche di crescita che diano ossigeno all’economia mondiale, quella americana compresa. Considerazioni che hanno spinto il candidato repubblicano USA a puntare il dito contro l’Europa – Italia e Spagna, in particolare – come un destino disastroso da evitare a tutti i costi.

Un atteggiamento di sufficienza non proprio nuovo se già Roosevelt avrebbe dato, il secolo scorso, a Eisenhower il seguente ordine: “Generale, raduni un reparto e faccia invadere l’Europa!”. Oggi i tempi sono fortunatamente cambiati, purtroppo non gli europei e i loro governanti, incapaci di riportare all’onore del mondo questa Europa piccola piccola.

 

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here