Stati Uniti e Europa nel secondo mandato di Obama

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Meccanismi elettorali complessi, con grandi elettori che prevalgono sul voto popolare e conteggi regolarmente esposti a contenziosi, hanno deciso chi doveva essere il Presidente USA e l’hanno deciso anche per noi che, in questo mondo globale, continuiamo a essere governati da sovranità locali, già contenti se frutto di processi democratici come nel caso americano, anche se senza alcuna nostra partecipazione.
Sempre meglio comunque di quanto avviene con l’altro grande evento della settimana, quello del cambio della guardia in Cina, dove non si può parlare di democrazia e di partecipazione popolare alla vita politica: è superfluo ricordare che da quegli esiti – USA e Cina – dipenderà molto del nostro futuro e del ruolo che vi potrà svolgere l’Europa.
In attesa di capire meglio cosa stia accadendo nelle segrete stanze della nomenklatura del Partito comunista cinese, qualcosa è possibile prevedere a proposito della politica estera USA, in particolare sui suoi rapporti con l’Europa.
La contrastata vittoria di Barack Obama in un Paese diviso, pesantemente condizionato dal controllo repubblicano della Camera dei Rappresentanti e da una fragile maggioranza democratica al Senato, non consentirà probabilmente grandi cambiamenti, anche se il Presidente potrà forse sfruttare più ampi margini di manovra grazie ai primi anni del suo secondo e ultimo mandato.
In politica interna dovrà continuare a fare i conti con una crisi finanziaria ed economica ancora in corso, un debito pubblico fuori misura, con una persistente difficoltà ad attivare la leva fiscale, un’occupazione che cresce ancora troppo lentamente e un’industria manifatturiera in caduta libera.
In politica estera sarà inevitabile ridimensionare la presenza USA nel mondo, non solo per l’imporsi impetuoso dei nuovi Paesi emergenti, dalla Cina all’India e al Brasile, ma anche per la contrazione delle risorse necessarie a presidiare militarmente aree sensibili del mondo, come l’Afghanistan dove è previsto il ritiro delle truppe USA nel 2014, e nell’area mediorientale dove si fa sempre più sentire l’influenza russa e comincia ad affacciarsi quella cinese.
L’Europa non potrà non risentire di questo clima, soprattutto se dovesse ancora ritardare la riforma delle sue Istituzioni, l’adozione di una capacità di governo comune dell’economia, lo stimolo a politiche di crescita, l’autorizzazione alla Banca centrale europea (BCE) a operare più direttamente sui mercati e il rafforzamento dei poteri del Parlamento con le elezioni europee del 2014.
La mancata elezione di Mitt Romney, se da una parte dà un momento di sollievo a un’Europa da lui indicata agli USA come il disastro da evitare, non cancella l’atteggiamento americano di sufficienza nei nostri confronti e non deve farci dimenticare che per gli USA il partenariato transatlantico sta cedendo il passo a quello transpacifico e che gli interessi americani divergono ormai vistosamente da quelli europei.
Con Obama potremo sperare su una diplomazia più aperta al dialogo multilaterale, un raffreddamento delle tensioni con Russia e Cina, un tentativo di contenimento del conflitto israelo-palestinese e la ricerca di una soluzione pacifica al contenzioso con l’Iran.
Tutti orientamenti che dovrebbero andare di pari passo con un’attenzione ai diritti umani e a quelli sociali che, se rispettati negli USA, produrranno benefici anche in casa nostra, Marchionne permettendo.
Improbabile invece che ci siano significativi progressi in materia di regolamentazione finanziaria a livello mondiale, di politica ambientale e di promozione dello sviluppo in continenti come quello africano. Temi questi che debbono invece stare in cima all’agenda dell’Unione Europea, se vuole restare coerente con il suo patrimonio di civiltà e il suo progetto di sviluppo e difendere i propri interessi in un mondo che cambia e che rischia di accentuare l’irrilevanza politica, economica e culturale dell’Europa e impoverire il resto del mondo, Stati Uniti compresi.

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