Se le relazioni con l’UE diventano “politica estera”

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Concordano molti osservatori, in Italia e all’estero, che molto del voto del prossimo 25 settembre si giocherà sulla politica estera.

Sarà questo un possibile discrimine tra le forze politiche in competizione, sempre a patto di non dimenticare che molto sarà anche sollecitata la “pancia” dell’elettorato su paure destinate a pesare alla vigilia di un autunno che si annuncia ad alto rischio di tensioni sociali.

Intanto, nell’attesa che si conoscano i programmi elettorali, può essere utile provare a fare chiarezza su cosa sia “politica estera” e la mappa complessa delle relazioni internazionali.

Per semplificarla, la mappa può essere articolata in tre categorie di relazioni: quelle bilaterali, le multilaterali e le federali.

La prima comprende le interlocuzioni tra Stato e Stato; nella seconda si sviluppano i rapporti che più Stati intrattengono tra di loro in seno ad una organizzazione internazionale intergovernativa, dove ciascun Paese mantiene intatta la propria sovranità; nella terza categoria, nelle realtà a prevalenza federale, gli Stati membri condividono le rispettive sovranità, consentendone, su determinate materie più o meno ampie limitazioni.

Nel caso dell’Italia sono da considerarsi relazioni attribuibili alla “politica estera” quelle comprese nelle prime due categorie di rapporti internazionali, come ad esempio quelli con gli USA, la Cina, la Russia, l’Ucraina e altri Stati sovrani o quelle attive in organizzazioni internazionali come l’ONU, il Fondo monetario internazionale (FMI), l’Alleanza atlantica (NATO) e molte altre di cui l’Italia fa parte.

È invece improprio – se non ingannatore – considerare politica estera le relazioni che l’Italia intrattiene all’interno dell’Unione Europea, frutto di una progressiva cessione di sovranità alle Istituzioni europee, dalla politica agricola al funzionamento del mercato unico, dalla politica monetaria per 19 Paesi UE a quella commerciale fino al cantiere condiviso avviato in materia ambientale. 

Mancano all’appello politiche importanti come quella della difesa, dell’energia e della politica fiscale ed altre ancora che, vincolate al voto all’unanimità, restano soggette alla responsabilità delle sovranità nazionali e esposte al veto dei governi UE, come accade con frequenza con l’Ungheria di Viktor Orban, non a caso punto di riferimento per alcuni politici nostrani.

Considerare quindi “politica estera”, come molti commentatori continuano a fare, quella sviluppata in seno all’Unione Europea non è solo un errore nella grammatica istituzionale UE, ma spesso anche un regalo alle forze politiche sovraniste per liberarle dalle regole europee condivise, come se fossero un optional cui ricorrere solo quando fa comodo.

Così accade che si cerchi di trarre tutti i vantaggi possibili – come avvenuto con buoni risultati nell’attuale congiuntura economica – dal “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (PNRR), alimentato da risorse europee, tentando però di chiamarsi fuori dalle riforme che vi sono collegate. O ancora che si cerchi protezione sotto l’ombrello della Banca centrale europea (BCE), dimenticando il massiccio debito pubblico italiano di 2.750 miliardi di euro. Come avviene con promesse elettorali che insistono per scostamenti di bilancio a spese di finanze pubbliche fragili, alle quali si vorrebbero ancora far sopportare nuove spese, come la richiesta di “mettere 50 miliardi nelle tasche degli italiani” e l’aumento indiscriminato della spesa pensionistica: il tutto in conto alle prossime generazioni cui non basterà una vita per saldare i debiti fatti dalla nostra allegra politica.

Tutto questo come si trattasse di materie di “politica estera” dove uno Stato, a sovranità limitata, può prendere o lasciare a seconda delle convenienze e non invece di una consolidata e condivisa “politica interna” per i Paesi che hanno consentito nell’Unione Europea a “limitazioni di sovranità”, come previsto dall’art. 11 della nostra Costituzione.

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