Che l’Unione Europea fosse da ricostruire lo si sapeva da tempo e qualcosa già si mosse in questa direzione all’indomani delle elezioni europee del 2019, quando la netta vittoria degli “europeisti” chiese un balzo in avanti al processo di integrazione europea.
Si cominciò a ricostruire con un cambio della guardia ai vertici delle Istituzioni europee, con due tra le più importanti – Commissione europea e Banca centrale europea – affidate alla guida di due donne e già questo era un segnale non banale, cui seguì rapidamente l’adozione di un programma di lavoro orientato verso un’ambiziosa transizione ecologica e digitale.
Diversa la musica nello scorso “anno di disgrazia” 2020, quello dell’esplosione della pandemia e della sciagurata vicenda di Brexit, risoltasi solo a fine anno con un accordo fragile e contraddittorio, come bene stanno sperimentando gli irlandesi. Due eventi, di incomparabile portata, ma entrambi tali da indurre a rivedere i piani per la ricostruzione dell’Unione, cogliendo l’occasione per spingere più avanti, liberati dal freno britannico, “il processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli d’Europa”, come recita l’art.1 del Trattato di Lisbona.
Una prima occasione venne colta nel luglio del 2020 con l’adozione del Recovery Fund, dotato di 750 miliardi di euro, grazie alla creazione di un debito comune che dovranno onorare solidalmente tutti i Ventisette.
Il problema è che spesso in politica, tra il decidere e il fare ci può essere di mezzo un mare, difficile da navigare in questi tempi tempestosi. Quelli, tra gli altri, che prevedono un faticoso processo di ratifiche nazionali per le decisioni europee attualmente appena a metà percorso,con un primo incidente di rilievo: quello che vede la decisione del Recovery Fund sul banco degli imputati davanti alla Corte costituzionale tedesca, con l’accusa di non rispettare le competenze nazionali. Si tratta di un tribunale davanti al quale sono comparsi periodicamente i Presidenti della Banca centrale europea, Mario Draghi compreso, sempre uscendone assolti.
L’incidente, oltre a provocare ritardi nella liberazione delle risorse europee, è un segnale delle resistenze tedesche a forme più avanzate di solidarietà europea. Non a caso proprio quelle invocate da Draghi, nel Consiglio europeo della settimana scorsa, quando ha rimesso sul tavolo il tema sensibile degli eurobond per rafforzare la sostenibilità futura delle finanze pubbliche europee.
Tutto questo nel contesto di una difficile lotta alla pandemia incappata in una pericolosa “guerra dei vaccini” che dovrebbe spingere l’Unione ad assumere maggiori responsabilità anche sul fronte della salute pubblica, nonostante i limiti angusti dell’art. 168 del Trattato.
Da queste difficoltà e cogliendo queste occasioni l’UE dovrà ricominciare a ricostruirsi, facendo perno sul valore della solidarietà e non scivolando sulla china delle frontiere che stanno pericolosamente riemergendo dentro e all’esterno dell’Europa.
In questa prospettiva torna l’esigenza di rivedere l’impianto istituzionale dell’UE, le sue politiche e le risorse perché l’Unione sia credibile. Sarà importante non confondere i fini, l’Unione sempre più stretta, con i mezzi, che si tratti di eurobond o di progressi nell’unione bancaria: per evitarlo sarà importante mettere a fuoco gli assi portanti della futura Unione, non solo il mercato ma anche il valore della democrazia partecipativa e il dialogo tra le culture di cui è ricco il nostro continente.
Ricordandoci disse, ormai in fin di vita, Jean Monnet, padre fondatore e architetto delle prime Comunità europee avviate a partire dall’economia: “Se dovessi ricominciare, ricomincerei dalla cultura”. Da allora aspettiamo ancora che si ricominci.