Nei giorni scorsi sono stati più d’uno i soggetti che nell’UE sono andati all’incasso.
Davanti al Parlamento europeo il neo – presidente della Commissione europea, Jean – Claude Juncker, ha incassato la fiducia, ampiamente prevista, dopo la messa in accusa da parte di populisti e opposizioni varie per le astuzie fiscali adottate dal suo Paese, il Lussemburgo, per rimpinguare le proprie casse a spese degli altri partner europei. Un verdetto di grazia imposto dalla congiuntura politica europea, non certo in grado di aggiungere una crisi istituzionale a quella finanziaria ed economica in corso, e dall’amara costatazione che a barare erano molti i Paesi UE, secondo Juncker 22 su 28, numeri che certo non consolano i contribuenti onesti.
È stata poi la volta dei Paesi UE in difficoltà di incassare la promessa di un piano di 315 miliardi di euro per rilanciare la crescita nei prossimi tre anni. Dirà qualcuno che si tratta di una promessa ormai vecchia, già annunciata dallo stesso Juncker al momento della sua investitura in Parlamento nel luglio scorso. Vero, ma si sa che annunci e promesse sono in questa stagione il tema dominante della politica in affanno, non solo in Italia ma anche a Bruxelles, generando ovunque attese e perplessità, quando non delusioni. È quanto sembra accadere al “piano Juncker”, giudicato poco praticabile se non peggio: si è parlato di “fumo negli occhi” e di “gioco delle tre carte”, nell’attesa che qualcuno arrivi a dipingerlo come una “truffa”.
Qualche robusta ragione di perplessità esiste, a cominciare dai numeri esibiti. Perché di quei 315 miliardi, l’UE riesce a metterne sul tavolo non più di una ventina: cinque in provenienza dalla Banca europea per gli investimenti (BEI), due soltanto raschiando nei cassetti del bilancio europeo e quattordici trasferendo, in caso di necessità, risorse dai fondi strutturali dello stesso bilancio. In tutto 21 miliardi di soldi pubblici che dovrebbero fare da leva per attivare altri quasi 300 miliardi in provenienza da capitali privati: una costruzione finanziaria ad alta creatività ma anche ad alto rischio di fallimento, vista la pratica prudente della BEI, che non vuole perdere la sua affidabilità sui mercati finanziari, e la reticenza dei privati a correre rischi non coperti da garanzie sufficienti, come testimonia la misera base di quella ventina di miliardi.
I più ottimisti, che si sono imposti di voler credere a quel piano, devono chiedersi come e a chi quei 315 miliardi sarebbero destinati. Juncker esclude che si possano ripartire in quote per ciascun Paese, ma solo sulla base della qualità dei progetti presentati, affidando la responsabilità della selezione a esperti indipendenti. Ai quali vanno tanti auguri, quando già si sa che il nostro ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, di quei miliardi ne vuole almeno una quarantina, considerando il piano Juncker solo un primo passo.
E veniamo all’ultimo, per ora, regalo di Natale, quello che ha graziato tre Paesi, Francia, Italia e Belgio, per le loro “leggi di stabilità”, sottratte a una valutazione matematica dei parametri europei e assolti con riserva grazie a una valutazione politica delle “condizioni eccezionali” delle rispettive economie. È previsto un esame di riparazione a inizio primavera e se sono rose fioriranno, anche se per ora prevalgono le spine: per l’Italia, quella delle riforme in corso di lenta adozione ma dagli effetti visibili solo nel medio periodo e quella del debito pubblico che non accenna a diminuire e scarica sui conti pubblici italiani un costo, per soli interessi, di circa 90 miliardi di euro all’anno.
Dall’UE tanti regali, troppi tutti insieme. Vengono in mente le parole del nostro Virgilio che temeva chi portava doni (Timeo Danaos et dona ferentes): quelli arrivati da Bruxelles potrebbero contenere veleni sottili per il futuro dell’Unione Europea.