Sono passati poco più di tre anni da quando il governo Berlusconi, il 5 agosto del 2011, ricevette la lettera del Banca Centrale Europea (BCE) che, nella sostanza, gli ingiungeva di mettere ordine nei conti italiani.
La BCE chiedeva allora al nostro governo di anticipare il risanamento delle finanze italiane e di farlo con misure concrete. La risposta si fece attendere due mesi e prese la forma, non particolarmente apprezzata dall’UE, di una “lettera di intenti”: di qui l’invio di un’ulteriore lettera della Commissione europea, che chiedeva all’Italia a che punto erano le misure promesse, suggerendo l’eventualità di una manovra aggiuntiva. Questa seconda lettera di Bruxelles chiedeva conto al governo delle sue inadempienze a proposito di materie che andavano dalla sostenibilità delle finanze pubbliche alle misure in favore delle imprese, dell’innovazione e della formazione, dalla modernizzazione della pubblica amministrazione e della giustizia alle infrastrutture, fino alle previste riforme costituzionali.
Si trattò di una corrispondenza che precipitò la crisi politica e l’affidamento del governo, da parte del Presidente della Repubblica, a “tecnici” guidati da Mario Monti, al quale sarebbe succeduto poco più di un anno dopo, a seguito delle elezioni politiche del febbraio 2013, il governo politico delle “larghe intese”, guidato da Enrico Letta, rimpiazzato meno di un anno dopo, dal governo delle “piccole intese” di Matteo Renzi, insediatosi nell’aprile 2014 senza alcun passaggio elettorale.
Da quelle lettere del 2011, nelle quali qualcuno ha visto un complotto contro la democrazia italiana, sembra passato un secolo: non solo per un alternarsi dei governi, precipitoso come in nessun altro Paese UE, ma per una serie ininterrotta di richiami da Bruxelles e di promesse italiane con risultati a tutt’oggi modesti. Fa un certo effetto rileggere le due lettere Ue del 2011 e confrontarle con i problemi tutt’ora aperti nelle aule del nostro Parlamento e con il cumulo di promesse, puntualmente rinnovate dal governo Renzi.
Molte parole sono corse da Bruxelles a Roma, molte di più, troppe, da Roma verso Bruxelles. Le risposte evasive all’UE sono state accompagnate da richieste italiane per chiedere maggiori flessibilità nel risanamento dei conti pubblici e da toni talora eccessivi nel pretendere per l’Italia l’affidamento di responsabilità istituzionali importanti – o creduti tali – come nel caso della candidatura italiana per il posto, nella Commissione europea, di Alto Rappresentante per la politica estera.
Il governo attuale si è cimentato in una difficile riforma costituzionale e nel tentativo in corso di rivedere la legge elettorale. Pochi però i risultati sul fronte caldo dell’economia e delle finanze pubbliche. Gli ultimi dati dell’Istat raccontano di un ritorno in recessione, di una stagnazione dell’occupazione in generale e di un aggravamento di quella giovanile che ha raggiunto il picco del 43,7%, mentre lo “spread” torna a salire, la Borsa ad agitarsi e il debito pubblico a impennarsi, nonostante sia sostanzialmente sotto controllo il deficit annuale, appesantito però dalla montagna di interessi che l’Italia deve pagare per il suo debito pubblico pregresso. È stato calcolato che la sola spesa per interessi, dal 1993 a oggi, ci è costata la bellezza di 1650 miliardi di euro, pari al 6% di quel prodotto interno lordo che quest’anno rischia di non crescere per nulla o molto poco. In altre parole: cresciamo poco o niente e quello che recuperiamo sul deficit annuale ce lo mangiano gli interessi del debito pubblico consolidato, con il rischio di tornare in infrazione al Patto di stabilità e questo proprio nel nostro semestre di presidenza UE.
Meglio avere ben chiari questi numeri in testa quando viene voglia di andare a Bruxelles ad alzare la voce.