Quando la ragion di stato prevale sull’etica e la giustizia

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Non è davvero capitata nel momento più propizio alla sua comprensione la recente sentenza della Corte dell’Aja che, a 70 anni dai fatti cui si riferisce, nega gli indennizzi alle vittime italiane dei nazisti. Il pensiero di molti è corso al clima che si respira da tempo nell’Unione Europea, agitata dalle tensioni  con la Germania di oggi, nel contesto del rigore finanziario imposto ossessivamente dalla Merkel.

E poiché sull’argomento è probabile che si dica tutto e il contrario di tutto, è bene cominciare col chiarire alcuni punti, a partire dalla Corte internazionale di giustizia, il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite (ONU), con sede all’Aja, da non confondere con la Corte di giustizia dell’UE (Lussemburgo), né con la Corte europea dei diritti dell’uomo (Strasburgo).

La Corte internazionale di giustizia dell’Aja, attiva dal 1946, ha la missione di regolare, conformemente al diritto internazionale, i contenziosi di ordine giuridico tra gli Stati e in questo ambito circoscritto va letta la sua sentenza, che si oppone a quella della Corte di Cassazione di Roma del 2008.

Nella motivazione della Corte internazionale si legge che l’Italia “ha violato il suo obbligo di rispettare l’immunità di cui la Germania dispone secondo il diritto internazionale, poiché ha consentito che fossero avanzate richieste di risarcimento civile”, come dire che l’Italia da accusatrice della Germania è passata sul banco degli accusati.

Comprensibili le reazioni delle vittime e delle loro famiglie e di quanti speravano in una sentenza che andasse oltre il riconoscimento dell’immunità degli Stati.

Attenendosi al solo piano della legalità internazionale, interpretata forse troppo in favore della “ragion di Stato”, e riferendosi ad accordi internazionali intervenuti all’indomani del conflitto, la Corte dell’Aja ha probabilmente chiuso la questione giuridica – fatte salve possibili trattative diplomatiche – aprendo un difficile dibattito sulle responsabilità morali e politiche. Perché se è vero che il Trattato di pace del 1947 sanciva l’abbandono da parte dell’Italia di ogni rivendicazione “per tutte le perdite e danni subiti durante la guerra” e che con il Trattato di riparazione bellica del 1961 la Germania pagò 40 miliardi di marchi agli italiani “vittime della persecuzione nazista a causa della loro razza, religione e visione politica”, resta almeno altrettanto vero che diritti umani fondamentali sono stati gravemente calpestati.

Discuteranno a lungo sull’argomento i giuristi, e non senza utilità, a condizione che si distingua il piano della legalità da quello della giustizia, quello dell’etica da quello della politica, ancora una volta fonte di perplessità.

Sono in molti a interrogarsi sulla politica della Germania di questi ultimi anni, annotando che il ricorso tedesco è stato presentato dal governo della Merkel e che a rallegrarsi della sentenza della Corte dell’Aja è stato il suo ministro degli esteri. Atteggiamenti ormai lontani da quello di Konrad  Adenauer, nella sua dichiarazione del 1951: “Nel nome del popolo tedesco sono stati commessi indicibili delitti, che obbligano a un risarcimento morale e materiale” e, ancora, dal gesto di Willy Brandt, il Cancelliere in ginocchio nel 1970 al ghetto di Varsavia. Ma allora era un’altra Germania e soprattutto, dicono adesso i più maligni, in quei tempi di Germania ce n’erano ancora due.

Ma anche la politica italiana si deve interrogare, a cominciare dall’insabbiamento dei documenti sulle stragi nazi-fasciste nascosti per 50 anni nell’ “Armadio della vergogna”, custodito nella Procura generale militare a Roma. E c’è molta ragion di Stato anche nelle remissive dichiarazioni, temperate dalla prospettiva di future trattative diplomatiche, del nostro attuale ministro degli esteri sulla sentenza, mentre suonano sospette e tardive le parole del suo predecessore, quel pallido Franco Frattini che solo adesso alza la voce per dire che “il verdetto è una pesante frusta per tutti coloro che sono stati colpiti da quei massacri”.

In entrambi i casi, in Germania e in Italia, con stili e da ruoli diversi, è giunte un’ulteriore conferma della difficoltà della politica a prevenire i conflitti e ad amministrare la pace e, soprattutto, della sua incapacità a fare prevalere la giustizia sulla legalità e l’etica sulla “ragion di Stato”.

1 COMMENTO

  1. Grazie a Franco Chittolina per essere intervenuto con tempestività e chiarezza a informarcci su di una vicenda passata sotto tono e scarsamente argomentata (quando non sviata nel suo significato).
    E’ evidente che occorrono forti competenze di diritto internazionale e una conoscenza non superficiale dei fatti storici che stanno sullo sfondo per intervenire in modo appropriato su questa materia e non posiamo che essere grati a Franco che è nella condizione di farlo.
    Con ammirazione Anna Acerbo

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