ONU, sì alla Palestina

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Il 29 novembre 2012 segna un giorno importante: l’Assemblea Generale ha votato a larghissima maggioranza la richiesta di Mohammud Abbas di conferire lo statuto di Stato non membro all’ONU alla Palestina. Con questo riconoscimento, lo statuto non farà più riferimento alla vaga denominazione di “entità palestinese”, ma più legittimamente a “Palestina”, confermando a chiare lettere il diritto di un popolo al proprio Stato.  Un atto di nascita della realtà dello Stato di Palestina, come ha voluto definirlo lo stesso Abbas, ancora da definire, molto più che simbolico e che ha soprattutto il pregio di non aver spento definitivamente la speranza di giungere, un giorno, alla costituzione di due Stati e di conferire un peso maggiore ai Palestinesi se si riapriranno dei negoziati di pace con Israele.

Un voto storico quindi se si pensa che interviene a sessantacinque anni di distanza dal voto  dell’Assemblea Generale dell’ONU, il 29 novembre 1947, a favore di una spartizione di quella Terra in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo. Lo Stato di Israele nasce nel maggio 1948 ma è da quella data che iniziano tutte le tragedie, gli esodi e i campi profughi dei Palestinesi, le guerre e i sempre falliti  negoziati di pace per l’istituzione di due Stati e per una convivenza sicura e rispettosa dei diritti reciproci che ne sarebbero conseguiti.

Ci sono voluti quindi tutti questi anni perché la Palestina potesse approdare a questo statuto in seno all’ONU, perché la risoluzione adottata richiamasse a riprendere i negoziati di pace affinché lo Stato di Palestina possa coesistere “accanto ad Israele in pace e sicurezza, sulla base delle frontiere prima del giugno 1967”.

Non è stato tuttavia un voto unanime e contro la risoluzione hanno votato non solo Israele, ma anche gli Stati Uniti, mentre l’Europa, incerta, si è divisa fra voti favorevoli (in maggioranza), contrari e astensioni. La prova del voto ha avuto come effetto di rimescolare le carte della diplomazia internazionale, mettendo soprattutto in evidenza alcuni fattori importanti: l’isolamento di Israele e degli Stati Uniti e il fallimento della loro politica nei confronti di una soluzione del conflitto mediorientale; il superamento degli Accordi di Oslo che prevedevano la costituzione di uno Stato palestinese attraverso un negoziato bilaterale con Israele;  l’inconsistenza e la spaccatura evidente del famoso Quartetto (ONU, Stati Uniti, Russia e Unione Europea) che per anni ha avuto la missione di favorire il dialogo fra le parti per giungere ad una pace durevole; l’emergere di nuovi attori sulla scena internazionale che potrebbero giocare un nuovo ruolo  nella soluzione del conflitto, in particolare la Turchia e l’Egitto.  E forse un altro elemento, oggi impercettibile ma che avrà un grande peso nella prospettiva futura di uno Stato palestinese, e cioè la momentanea positiva accoglienza di Hamas del voto all’ONU, in un momento in cui  il ruolo crescente di quest’ultimo, dopo il recente conflitto tra Israele e Gaza, rischia di inasprire le divisioni interne palestinesi e, in prospettiva, di isolare  Mahammud Abbas.

Dopo questo 29 novembre e questa svolta importante sia da un punto di vista politico che giuridico per la Palestina,  si aprono tuttavia scenari difficili in Medio Oriente, a partire dalla reazione immediata di Israele di dare il via  alla costruzione di 3.000 nuovi insediamenti per i coloni che collegherebbero la Cisgiordania occupata  a Gerusalemme est e che avrebbero l’effetto di dividere in due la Cisgiordania e compromettere ancor più la viabilità di uno Stato palestinese.  La  colonizzazione da parte di Israele sui Territori occupati, sebbene condannata a livello internazionale e dichiarata illegale secondo il diritto internazionale, è sempre stata l’arma con cui Israele ha cercato di impedire la pace e la soluzione a due Stati. Ora la Palestina, con il suo nuovo statuto ha il diritto di ricorrere alla Corte Penale Internazionale, con tutto quello che ciò può comportare su una prospettiva d’avvio di negoziati di pace.

Una svolta importante dunque, ma carica di tante e nuove incognite e con la speranza che la responsabilità assunta da gran parte della comunità internazionale non si fermi al 29 novembre ma continui con coraggio ad aprire prospettive per ridare dignità e futuro a un popolo da decenni ingiustamente ignorato e calpestato.

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