ONU, Arabia Saudita e diritti della donna

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Il 26 aprile 2017 è un giorno da non dimenticare per quanto riguarda la credibilità dell’ONU. A scrutinio segreto e quindi con una procedura alquanto inabituale, i 54 membri del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) hanno eletto (secondo un complicato sistema di rotazione) i nuovi 13 membri della Commissione sullo status delle donne (Commission on the Status of Women – CSW).

Fra questi nuovi membri, che saranno in carica dal 2018 al 2022, spicca in particolare l’Arabia Saudita, Paese che nelle stime del Global Gender Gap 2016, rapporto pubblicato dal Forum Economico Mondiale, viene classificato al 141esimo posto su 145 Paesi per la parità di genere, perdendo ulteriori posizioni rispetto al 2015. Gli altri Paesi che sono entrati a far parte della Commissione sono: Algeria, Comore, Congo, Ghana, Kenya, Iraq, Giappone, Repubblica di Corea, Turkmenistan, Ecuador, Haiti e Nicaragua. Alcuni di di questi Paesi sono anch’essi particolarmente noti per la disastrosa situazione dei diritti delle donne, come ad esempio l’Iraq, il Congo o il Turkmenistan.

La Commissione è il principale strumento intergovernativo dell’ONU il cui obiettivo principale è la promozione dei diritti delle donne, attraverso un’analisi accurata della realtà della condizione femminile e delle situazioni vissute dalle stesse donne in tutto il mondo. Inoltre, definisce standard globali in materia di parità di genere, standard che i Paesi membri dell’ONU dovrebbero raggiungere con adeguate politiche economiche e sociali.

L’elezione, in particolare, dell’Arabia Saudita in quella Commissione, dopo quella già avvenuta in seno al Consiglio ONU dei diritti umani nel 2015, ha naturalmente sollevato reazioni indignate, in particolare da parte delle organizzazioni della società civile. Si tratta infatti della nomina, a tutela e a promozione dei diritti della donna, di uno dei Paesi più oscurantisti al mondo, di un regime che calpesta i diritti umani, che è fra i primi in classifica per le condanne a morte, per persecuzioni e applicazione sistematica della tortura. È il Paese in cui il wahabismo, rigida interpretazione dell’islam sunnita, impone alle donne la legge della sorveglianza maschile, dove la vita di una donna è controllata dalla nascita fino alla morte da un uomo, sia esso il padre, il marito o il figlio. E’ il Paese che ha concesso il diritto di voto alle donne solo nel 2015.

Eppure, per quanto paradossale possa essere, anche l’Arabia Saudita, in quanto membro della Commissione, sarà chiamata a partecipare alla scrittura e al voto di direttive che tutelino i diritti delle donne nel mondo. Una prospettiva più che inquietante, carica di interrogativi sulla missione dell’ONU e sul futuro della difesa e dell’evoluzione dei diritti fondamentali.

Il paradosso si spinge poi fino all’interno delle nostre Istituzioni europee, nel cuore del Parlamento Europeo il quale, nel 2015, aveva assegnato il premio Sacharov proprio ad un cittadino dell’Arabia Saudita, Raif Badawi, in prigione dal 2012, torturato e frustato per aver osato, in quanto blogger, difendere la libertà d’espressione nel suo Paese.

Evidentemente questa elezione è il frutto di un ignobile compromesso. L’Arabia Saudita considera importante essere presente all’ONU e influenzare il processo decisionale sui diritti, cosa che conferirebbe al Paese non solo una maggiore legittimazione internazionale ma anche più libertà per scoraggiare l’opposizione interna al regime.

D’altra parte, l’Arabia Saudita è l’alleata dei Paesi Occidentali, in particolare di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia nella polveriera mediorientale. Importante partner economico e commerciale, soprattutto per le sue riserve di petrolio, è alleata nella lotta al terrorismo, anche se proprio l’Arabia Saudita è il principale sostenitore dei gruppi jihadisti sunniti e dell’integralismo salafita. E’ il Paese che sta guidando una guerra atroce nello Yemen, violando le più elementari regole del diritto internazionale ma diventando il principale acquirente di armi dei suoi alleati, compresa l’Italia.

Triste giorno quindi per i diritti umani e per le nostre democrazie che sembrano aver sacrificato valori sacrosanti sull’altare del profitto e del business. Per un semplice calcolo matematico, fra i 54 membri dell’ECOSOC, 12 sono Paesi dell’Unione Europea. Se 47 hanno votato a favore della candidatura dell’Arabia Saudita significa che almeno 5 erano Paesi europei. A scrutinio segreto non è dato sapere quali, ed evidentemente questi Paesi non hanno il coraggio di confessarlo pubblicamente.

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