In un Medio Oriente attraversato e scosso da gravi turbolenze, da guerre sempre più difficili da definire e da equilibri geostrategici, politici e religiosi in continua oscillazione, irrompe sulle prime pagine dell’attualità e con la sua regolare scadenza, il conflitto israelo palestinese.
Dopo l’ennesima interruzione, nello scorso aprile, dei tentativi di negoziato di pace e dopo l’ultima guerra a Gaza, conclusasi la scorsa estate con un fragile e irrisolutivo cessate il fuoco, la violenza è scoppiata ora, in particolare, a Gerusalemme. Città simbolo in cui si incrociano, allo stesso punto, i luoghi sacri di ebrei e musulmani, città divisa in due tra est e ovest e città in cui, non esiste più, per i Palestinesi rimasti ad est, nessuna autorità in grado di rappresentarli di fronte al Governo israeliano.
Il susseguirsi di violenze e di vendette dopo la guerra di Gaza, ha raggiunto un punto critico con l’attentato, lo scorso 18 Novembre, alla Sinagoga di Har Nof, un quartiere ultraortodosso di Gerusalemme Ovest, dove, per mano di due Palestinesi, sono stati barbaramente uccisi cinque israeliani in preghiera. Un atto sicuramente condannabile, ma che rivela purtroppo quanto insanabili siano diventati il conflitto e l’odio che ormai pervadono le due comunità, in un crescendo che acquista un significato, se possibile, ancor più inquietante visto il contesto regionale e il dilagare dell’estremismo islamico e jihadista.
Non sorprende purtroppo la reazione di Israele all’attentato; come sempre si prospetta una risposta dura, volta ad annientare quel «terrorismo» che rischia di diventare, dopo tanti anni di inutili tentativi per dare corpo a un processo in grado di garantire terra, giustizia e futuro a due Stati, l’unico strumento nelle mani di un Popolo palestinese ormai allo stremo nella ricerca della pace. Segnati dalle divisioni geografiche fra Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est, dovute ad una lunga storia di conflitti, ad una ben calcolata politica israeliana del «divide et impera» e alle conseguenti difficoltà ad affrontare insieme, da un punto di vista politico e ideologico, una strategia di negoziato e confronto con Israele, i Palestinesi assistono ormai da anni alla progressiva riduzione del loro spazio vitale, alla negazione di un loro Stato, all’incessante occupazione delle loro terre e alla determinata volontà di Israele di garantire solo con il monologo della forza la sua sicurezza.
Difficile in queste condizioni intravedere futuri spiragli di pace. Eppure, mai come in questo momento, in cui la rivolta palestinese a Gerusalemme, spontanea e priva di leadership, giustificata da Hamas e condannata da Abu Mazen, è necessario riavviare urgentemente un processo di dialogo e un nuovo impegno da parte della comunità internazionale. Vanno salutate al riguardo le recenti decisioni del Governo svedese e del Parlamento spagnolo di riconoscere ufficialmente la Palestina come Stato, perchè sarà in questo riconoscimento, negoziato in conformità del diritto internazionale, che si potrà pensare ad una soluzione giusta e duratura per la pace. Sarebbe un grande contributo in tal senso se tutta l’Unione Europea, sulla scia delle iniziative individuali dei suoi Stati membri, avesse il coraggio di compiere un tale passo, mandando, con una sola voce, il chiaro messaggio del diritto al futuro anche per la Palestina.