Non ripetere Brexit con la Polonia

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Quando la storia si ripete due volte, disse Marx, la prima è una tragedia, la seconda una farsa. Potrebbe capitare in Europa con la prospettiva di un’uscita della Polonia dall’UE, quella “Polexit” largamente evocata all’indomani della sentenza della Corte costituzionale polacca contro il primato del diritto europeo su quello nazionale.
Il tema non era all’ordine del giorno del Consiglio europeo riunito a Bruxelles, ma ne ha spazzato via quelli previsti, peraltro rimasti senza decisioni, per ritagliarsi la scena. Conseguenza non banale che si è tradotta in particolare nel rinvio a data da destinarsi di due altre serie urgenze: il problema antico dei migranti e quello più recente del prezzo dell’energia alla vigilia dell’inverno, un segnale che per la Polonia e l’UE la tempesta si avvicina.
Ne è stata prova la determinazione con la quale si è espresso contro la il governo polacco il Parlamento europeo – in contrasto con Lega e Fratelli d’Italia – premendo sulla Commissione perché si faccia carico dei suoi doveri di “guardiana dei Trattati “ e prenda le misure che si impongono, dopo anni di inutili tentativi di dialogo.
Perché la pressione sovranista della Polonia nell’UE dura da quasi quattro anni, più o meno il tempo perso dalle Istituzioni europee nella telenovela, se non tragica certo drammatica, della Brexit, con la speranza che non ci aspetti adesso la farsa polacca.
Anche se un merito alla Polonia – e prima di essa al Regno Unito – va riconosciuto: quello di spingere quanti lavorano per un’Europa federale a chiarire se questo è ancora il loro progetto da perseguire, costi quel che costi.
Con Brexit abbiamo capito almeno due cose: che non porta da nessuna parte il dialogo tra interlocutori che perseguono obiettivi opposti e che ci sono separazioni dolorose ma benefiche, come dimostrato dall’eccezionale creazione di un debito comune europeo, all’origine del Recovery fund, traguardo impossibile con il Regno Unito in squadra a frenare su tutto.
E così, a quasi vent’anni dall’affondamento del Progetto di Costituzione europea, ci ritroviamo al bivio tra un’Europa confederazione di Stati sovrani e un’Unione europea, comunità di popoli solidali, orientati a promuovere insieme giustizia e pace, come affermato dall’art. 11 della nostra Costituzione, senza contrasti con i Trattati europei.
Adesso che quella partita si riapre è bene avere chiaro come si dispongono le squadre in campo: da una parte i Paesi fondatori e buona parte di quelli che hanno rafforzato i loro legami grazie anche all’euro; dall’altra la banda di Visegrad (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Repubblica ceca) e complici, come Austria e Slovenia, uniti dagli appetiti provenienti dai generosi fondi del bilancio UE.
Purtroppo l’esito non è scontato, a cominciare dal giocatore capitano della squadra dei “federali”, la Germania per ora ancora della Merkel, tentata da una estenuante mediazione per salvaguardare i propri interessi di mercato e responsabile del tempo perso con la Polonia. In campo con i “federali” anche un altro giocatore importante, ma in chiara difficoltà: il presidente francese Emmanuel Macron, ormai a pochi mesi da una consultazione elettorale per lui decisiva e anche lui tentato di “fare melina” con una mediazione che sa senza sbocchi chiari.
In campo dalla parte dei “federali” ci sarebbe, come da tradizione, anche l’Italia, oggi rappresentata da Sergio Mattarella e da Mario Draghi, anche loro alla vigilia di due consultazioni elettorali decisive per le sorti del Paese, e in parte dell’Europa.
Come dire che si tratta di una partita ancora tutta da giocare e di un’occasione per capire chi in Europa meriterà di restare in serie A e chi scendere invece in B.
Peserà molto anche il tifo dei popoli europei, a condizione che siano coscienti della posta in gioco e non considerino la partita una “amichevole “ che non lascerà traccia nel loro futuro  (salvo per i polacchi che a stragrande maggioranza vogliono restare nell’UE), se non quella di una farsa di cui non abbiamo davvero bisogno.

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