Ci sono coincidenze che invitano alla riflessione. Come l’assegnazione del premio internazionale Carlo Magno per l’Europa al presidente ucraino Zelensky ad Aquisgrana il 14 maggio scorso, sette anni dopo il conferimento dello stesso premio a papa Francesco. Una coincidenza rafforzata dall’incontro, nello stesso 14 maggio a Roma, dei due personaggi premiati, non proprio coincidenti sul tema della pace.
Il premio Carlo Magno viene assegnato annualmente a personalità con meriti particolari in favore dell’integrazione e la pace in Europa. Il 6 maggio 2016 venne conferito a papa Francesco per il suo “straordinario impegno a favore della pace, della comprensione e della misericordia in una società europea di valori”.
La motivazione del premio per Zelensky sono nelle parole del Cancelliere tedesco Scholz: “Per la prima volta il premio Carlo Magno viene assegnato a un presidente e al suo popolo. Penso sia una scelta molto saggia, perché avete raggiunto cose incredibili con il vostro coraggio contro l’aggressione della Russia. La guerra ci ha uniti come mai prima”. Gli ha fatto eco Zelensky: “L’Europa non deve essere un posto per tiranni che distruggono vite. Per questo dobbiamo vincere”.
Si tratta di due premiazioni non facilmente comparabili, visti i personaggi interessati e il periodo storico che viviamo. Sette anni fa la guerra non lambiva l’Europa, ma incombeva da anni non lontano in Siria, provocando vittime e ingigantendo flussi di milioni di profughi verso i Paesi circostanti, Unione Europea compresa. Non a caso papa Francesco nel suo discorso al conferimento del premio ebbe, come sempre, parole chiare. “La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione”.
È probabile che argomenti analoghi siano emersi nella conversazione faccia a faccia tra il papa e il presidente ucraino il 14 maggio a Roma: il primo impegnato a favorire le armi del dialogo, il secondo alla ricerca di sempre più armamenti per raggiungere la vittoria. Dialogo e vittoria, due parole difficili da coniugare, come è risultato evidente dal rifiuto opposto dal presidente ucraino alla proposta del papa per una “mediazione” vaticana. Forse è anche questa risposta a spiegare la caduta di consenso in Europa per il presidente ucraino.
Si è trattato di un rifiuto che molto dovrebbe fare riflettere anche la politica sulle due sponde dell’Atlantico e sul ruolo della NATO, e con essa degli Stati Uniti, nel fare prevalere le armi su iniziative di dialogo, necessarie e urgenti nonostante la non disponibilità dell’aggressore russo, coinvolgendo altri attori internazionali, come avvenuto nel recente Vertice del G7 a Hiroshima, in particolare con Paesi come Cina, India e Brasile.
Certo il papa non ha una responsabilità politica diretta nella gestione del conflitto in corso come l’ha invece il presidente ucraino, ma una maggiore disponibilità di Zelensky e dei suoi alleati occidentali a non cavalcare il solo obiettivo della vittoria, aprendo ad iniziative di dialogo, potrebbe aprire la strada a quella pace giusta cui l’Ucraina ha diritto.
Sarebbe anche l’occasione per l’Unione Europea di meritare quel premio Nobel per la pace ottenuto nel 2012 con una motivazione che torna impegnativa oggi: “per aver contribuito a trasformare la maggior parte dell’Europa da un continente di guerra in un continente di pace”.
Da allora, per riuscirci, resta ancora molto da fare.