L’europeismo critico di Mario Draghi

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Per la sua investitura a Presidente del Consiglio Mario Draghi si è presentato come “europeista e atlantista”. Vale la pena provare a capire a quale Europa si riferisce il nuovo Draghi: a quella che esiste o a quella che dovrebbe esistere?

Dell’Unione Europea che esiste è stato artefice per lunghi anni, come Presidente della Banca centrale europea (BCE): dai pesanti interventi, d’intesa con la Commissione europea e il Fondo monetario internazionale,  nella crisi greca fino all’impegno per salvare, costi quel che costi, l’euro e la sua “irreversibilità”, al quale ancorare il suo “europeismo”. 

Ortodossia pura, in evidente continuità con i dettami del Trattato di Maastricht, appena aggiornati dal Trattato di Lisbona attualmente in vigore. Un’Unione di cui anche Mario Draghi ha responsabilità, tanto per la salvaguardia della moneta come per l’impronta federale tentato con la BCE, dentro un assetto istituzionale UE vittima della  prevalenza di una dinamica intergovernativa su quella comunitaria.

Uno squilibrio che si è di nuovo manifestato nella vicenda dei vaccini dove gli interessi dei governi nazionali hanno prevalso sul difficile coordinamento affidato alla Commissione europea da quegli stessi Stati membri che poi si sono a più riprese chiamati fuori. E’ successo ancora recentemente, prima con il divieto di esportazione di vaccini dall’Italia all’Australia e poi con il blocco unilaterale a opera della Germania, seguita da Francia e Italia, a proposito della somministrazione del vaccino AstraZeneca, con tutto quello che ne è seguito.

Non è facile a fronte di questa mancata concertazione europea e appena a ridosso di questi eventi inattesi valutare l’”europeismo” dei principali attori dei Paesi membri, lasciando da parte quello rifiutato da Polonia, Ungheria e dintorni, che almeno hanno una consolidata posizione chiara.

Così è presto per valutare l’”europeismo” del nuovo governo, significativamente zavorrato dalla presenza della Lega, il maggiore partito nella maggioranza, e ancora novizio nella prima conferenza stampa di Draghi.

A proposito di questo suo primo confronto i media hanno molto parlato di un Draghi “pragmatico”, valutazione che si potrebbe applicare anche ai suoi rapporti – comprensibilmente problematici di questi tempi – con Bruxelles, dalla Commissione europea all’Agenzia europea del farmaco (EMA), entrambe finite sul banco degli imputati, come può capitare ai capri espiatori.

In attesa di meglio decifrare l’”europeismo” di Mario Draghi forse è meglio qualificarlo come “critico”: comprensibilmente scontento delle prove date dall’amministrazione di Bruxelles e “pronto a fare da solo”, ma forse anche potenziale stimolatore di un “cambio di passo”, magari anche di un salto di qualità delle Istituzioni europee fino a promuoverne una riforma.

E questo potrebbe essere un altro dei banchi di prova cui è chiamato Mario Draghi: artefice, insieme con tanti altri di questa Europa giustamente criticata, ma anche un suo possibile rifondatore, nella tradizione italiana dei De Gasperi, Spinelli e Ciampi. Per farlo il momento si presta: da una parte la rottura di paradigma, sociale economico e politico, provocato dalla pandemia nel mondo e in Europa, dall’altra l’occasione offerta dall’annunciata Conferenza per il futuro dell’Europa, inizialmente pensata per una “manutenzione straordinaria” di questa Unione vicina al capolinea e bisognosa di lavorare a un nuovo Trattato, in grado di rispondere alle nuove sfide dotandosi di regole che mettano fine alla strozzatura del voto all’unanimità, almeno per materie di chiara dimensione transnazionale. 

E anche qui, la lunga esperienza della presidenza della Banca centrale europea dovrebbe aiutare Mario Draghi “europeista critico” a lavorare a un’altra Europa possibile. E ormai necessaria. 

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