L’Europa e la guerra in Siria

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Per sette lunghi anni l’Europa si è limitata a condannare la guerra civile in Siria, tenendosene comprensibilmente alla larga, come fece anche Barack Obama, nonostante fosse stata superata, già nell’agosto del 2013, la “linea rossa” delle armi chimiche con oltre mille vittime tra i civili.
Adesso che quello scenario sembra essersi ripetuto, con molti bambini fra le vittime, diventa difficile anche per la prudente Europa chiamarsi fuori. E non solo perché sono calpestati i suoi valori di riferimento e i trattati internazionali sul divieto dell’uso di armi chimiche (come se altre armi fossero giocattoli innocui), ma anche perché con l’occasione sono scesi in campo suoi tradizionali alleati, come gli USA e la Turchia, e un vicino sempre più invasivo, come la Russia di Vladimir Putin.
Gli USA, che sembravano voler abbandonare il loro ruolo di “gendarmi del mondo” e ritirarsi quanto prima dalla bollente area mediorientale, dopo aver contribuito a incendiarla, adesso si sono sentiti in dovere di dare una lezione al dittatore siriano Assad e far sentire la potenza dei loro missili, con tutti i rischi del caso. Tutto questo mentre Donald Trump minaccia di rompere i patti con gli alleati non solo sulla lotta al riscaldamento climatico e sul nucleare iraniano, ma sui trattati commerciali internazionali, brandendo l’arma dei dazi.
La Turchia coltiva i suoi interessi in Siria per tenere sotto controllo i curdi e rafforzare le sue intese con la Russia, dimenticando il ruolo dei curdi nella lotta all’Isis e gestendo con molta disinvoltura la sua partecipazione alla NATO, condividendo senza imbarazzo sofisticati sistemi d’arma con la Russia.
Quest’ultima ha trovato nella Siria l’occasione d’oro per ritornare nel grande gioco della politica internazionale e per affacciarsi saldamente con la sua flotta nel Mediterraneo: un protagonismo in politica estera utile per distrarre dalle difficoltà economiche e sociali un popolo che ha plebiscitato Putin nelle recenti elezioni.
E che cosa fa l’Europa in questo groviglio complicato di interessi e di alleanze, dove si muove pericolosamente anche Israele, con la copertura degli Stati Uniti? 
Ci si potrebbe aspettare che, secondo un’antica regola di guerra, i Paesi dell’Unione Europea “marcino separati per colpire uniti”. Sembra invece il contrario: che “parlino uniti e colpiscano separati”, indotti a questo da un Trattato UE che non consente una politica estera e di difesa comune, salvo il richiamo al valore della pace e della solidarietà, per poi consentire ai Paesi membri di muoversi come meglio credono.
È quanto sta accadendo a fronte del massacro siriano, dove i quattro principali Paesi UE mostrano atteggiamenti diversi: le due medie potenze nucleari, Gran Bretagna e Francia, non hanno esitato a fare sentire il loro peso sulla scena internazionale, magari anche per riparare alla facilità con cui, cento anni fa, tracciarono confini artificiali in Medioriente, con i brillanti risultati che oggi scontiamo.
Molto più prudente la Germania, con Angela Merkel che avrebbe probabilmente apprezzato una maggiore condivisione nella vicenda con quell’Emmanuel Macron che tanto dice contare su un’intesa con la Cancelliera, anche per sviluppare insieme un avvio di politica comune europea della difesa.
Inevitabilmente più defilata si è mostrata l’Italia, guidata con la dovuta prudenza da Paolo Gentiloni alla testa però di un governo limitato all’ordinaria amministrazione: una condizione non proprio adatta per un’emergenza di questa natura e tuttavia gestita con saggezza, puntando molto di più sulla diplomazia, d’intesa con gli alleati, che non su un pericoloso intervento armato.
Il tutto reso più difficile dalla divergenza tra i due “vincitori” delle ultime elezioni, Di Maio e Salvini, candidati a governare l’Italia con opzioni molto diverse tra loro in politica estera: una preoccupazione non solo del Presidente Sergio Mattarella, ma di ogni persona di buon senso che, anche in questa occasione, sentirà la mancanza di una politica di difesa comune europea.

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