Le nuove frontiere dell’Unione Europea

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Quando muove la storia, muove anche la geografia. In Europa lo abbiamo vissuto in permanenza per secoli e non è stato un bel vedere: una successione infinita di guerre, di vittime, di profughi.

In questi ultimi settant’anni le nostre frontiere si sono mosse, qualche volta ancora con le tragedie della guerra, più spesso pacificamente, anche se con qualche tensione.

Non abbiamo dimenticato il dramma della ex-Jugoslavia, ancora oggi terra di frontiere contese; abbiamo in mente altre frontiere che si sono modificate come quella soppressa tra la Germania occidentale e quella orientale o quella ristabilita tra la Slovacchia e la Repubblica ceca. Soltanto qualche mese fa è ritornata una frontiera storica, quella tra l’Unione Europea e il Regno Unito e a tutt’oggi non sappiamo come finirà un’altra frontiera sensibile, quella tra le due Irlande, fin quando ve ne sarà una.

All’indomani dell’abbattimento del Muro di Berlino e in vista del grande allargamento dell’UE ad est, un’altra frontiera fu oggetto di particolare attenzioni: quella che correva lungo il fiume Oder e divideva la Germania – e quella che allora chiamavamo Comunità europea – dalla Polonia. Si trattava di un confine provvisorio deciso nel 1945 dalla Conferenza di Postdam e quel “provvisorio” dava qualche preoccupazione, sanata dal Trattato di Varsavia firmato da Germania e Polonia nel 1990.

Quella frontiera fisica non è più oggetto di contestazioni e speriamo non lo sia mai. Ma un’altra frontiera, politica questa volta, si sta alzando all’interno dell’Unione Europea tra le Istituzioni UE e la Polonia: quella che segna il rispetto dello Stato di diritto, in tensione tra le due parti del continente e non solo con la Polonia, ma anche con l’Ungheria e gli altri Paesi di Visegrad (Slovacchia e Repubblica ceca) con la Slovenia in scia.

Da tempo ormai tra queste due parti dell’UE le tensioni crescono: a rilanciarle, dopo l’adozione in Polonia e Ungheria di leggi contrarie allo Stato di diritto, ci hanno pensato la Corte europea di giustizia che ha denunciato la nuova normativa polacca per i giudici, contraria all’indipendenza della magistratura, e la Commissione europea che ha avviato una procedura di infrazione per non rispetto degli orientamenti sessuali e la loro libera espressione in Ungheria e Polonia. Una risposta attesa da tempo dalla stragrande maggioranza dei governi UE e sollecitata dal Parlamento europeo che aveva addirittura minacciato di mettere sotto accusa la Commissione se non avesse proceduto come previsto dai Trattati.

Per riassumere: da una parte Polonia e Ungheria che ritengono di non essere sottomessi al diritto comunitario prevalente su quello nazionale e rifiutano quindi i pronunciamenti della Corte europea, attentando gravemente alla coesione politica dell’Unione; dall’altra le Istituzioni comunitarie e una maggioranza di governi che minacciano di bloccare i fondi europei ai Paesi “non in regola” con le normative comunitarie, sulla base anche di deliberazioni del Parlamento europeo, adottate in occasione dell’accordo relativo alla creazione del Recovery Fund, dal quale discendono i “Piani nazionali di ripresa e resilienza”, come il PNRR italiano approvato nei giorni scorsi dall’UE, mentre quello dell’Ungheria, non a caso, è in attesa di ulteriori valutazioni.

Una situazione che ha spinto alcuni ad evocare altre puntate degli “exit” europei: dopo il Regno Unito, anche Polonia e Ungheria, con un ritorno di frontiere di cui non provavamo il bisogno, ma che potrebbero – anche se dolorosamente – contribuire finalmente a chiarire, anche se tardivamente, quali siano le regole da rispettare della democrazia – nazionale ed europea – per assicurare un futuro all’Unione. 

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