Le linee rosse della Siria

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Diventa sempre più difficile, dopo sette anni di una guerra che coinvolge tutte le potenze mondiali e regionali, descrivere gli orrori e le sofferenze di una popolazione vittima ormai dei giochi più cinici e complessi per la supremazia e il futuro della regione.
Si è scatenato infatti all’indomani della strage di Douma, nella Goutha orientale, il macabro ballo internazionale delle smentite e delle accuse sulle responsabilità dell’uso delle armi chimiche, sulle inevitabili minacce di ritorsione nei confronti dei presunti autori, sull’inaccettabile superamento di quelle linee rosse che, dalla precedente strage del 2013 che aveva causato circa 1.300 vittime, non sono mai state né rispettate né cancellate.
Le cronache di questi anni di guerre e terrorismo in Siria sono sempre state infatti costellate da informazioni su attacchi chimici di varia entità e questo riporta al centro dell’attenzione il rispetto della lotta contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa e, qui in particolare, delle armi chimiche.
L’attacco perpetrato nel 2013, aveva, come quello avvenuto in questi giorni, portato la comunità internazionale sul bordo di un intervento militare contro il regime di Bachar al Assad , un intervento evitato con la mediazione della Russia e con un accordo fra Russia e Stati Uniti in base al quale Bachar al Assad si impegnava a smantellare l’arsenale chimico siriano. L’operazione, iniziata nell’ottobre 2013 sotto sorveglianza dell’ONU e degli esperti dell’Organizzazione per l’interdizione delle armi chimiche (OIAC) aveva messo in luce la più grande scorta di agenti tossici presente in Medio Oriente, destinata ad essere distrutta nel giro di un anno.
Non solo, ma per rendere l’impegno siriano credibile, Bachar al Assad ha aderito, nel novembre 2013, alla “Convenzione per il divieto di proliferazione, stoccaggio e uso delle armi chimiche e per la loro distruzione” (CWC), (tuttora tuttavia non ratificata dalla Siria), aprendo cauti spazi di soluzione diplomatica al conflitto in corso. In effetti, nel 2013, la guerra, che durava ormai da due anni, non aveva ancora assunto le caratteristiche odierne di un forte intreccio di interessi strategici e politici di portata regionale e internazionale. Nel 2013, il regime di Damasco era ancora fragile e incerto su una sua futura vittoria, i ribelli e l’opposizione moderata erano più forti e sicuri nella loro lotta, Putin non aveva ancora consolidato il suo potere e definito con precisione la sua politica in Medio Oriente, l’Iran era in pieno negoziato con l’Occidente sul nucleare, i Paesi del Golfo meno divisi e più determinati e gli Stati Uniti, con il Presidente Obama, più prudenti e inclini a favorire un paziente e, purtroppo vano, lavoro di diplomazia.
Dopo quattro anni la situazione è notevolmente cambiata. Nessuna mediazione diplomatica è stata in grado di fermare la guerra. Anzi, la guerra è continuata in un crescendo di atrocità e distruzioni fra attori e vittime sempre più numerosi, fino al punto raggiunto oggi in cui il rinnovato uso di armi chimiche in Siria, ormai da considerare come un vero e proprio strumento politico, ha fatto scattare il più inquetante allarme di risposta e di intervento militare a livello internazionale.
C’è da sperare che in questo intricato ed infinito conflitto non si aggiungano altre guerre alle guerre, perché le conseguenze sarebbero inimmaginabili. Purtroppo non giungono segnali incoraggianti nemmeno dal Consiglio di sicurezza dell’ONU dove, da troppi anni a questa parte, anche in quella sede si combattono, a parole, conflitti ed interessi non solo in Siria ma sull’insieme dello scacchiere mediorientale. Per il momento quindi, la prospettiva di un inizio di processo di pace si allontana ancor più, nella totale impotenza mediatrice e diplomatica dell’intera comunità internazionale. Ma si indebolisce anche la forza e la portata degli accordi internazionali, come appunto la Convenzione sulle armi chimiche, alla quale aderiscono ben 189 Paesi, e vieta, esplicitamente la produzione e l’uso delle armi chimiche.

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