Sembrava vicina al cambiamento di rotta, a scelte che l’avrebbero portata su strade nuove e con orizzonti democratici e di maggiore libertà. Il secondo turno delle elezioni presidenziali turche hanno invece riconfermato e conferito un nuovo mandato a Recep Tayyip Erdogan, costante vincitore di elezioni da vent’anni a questa parte.
Con una vittoria al 52% dei voti, Erdogan ha spento le speranze di milioni di turchi che si erano coraggiosamente schierati dietro una consistente, eterogenea e fragile opposizione, guidata da Kemal Kılıçdaroğlu, primo candidato a portare il presidente uscente ad affrontare un secondo turno. Un’opposizione creatasi con evidenti difficoltà, chiamata a contrastare un uomo e il suo partito che, sul filo del loro già lungo regno, hanno disegnato il volto della Turchia odierna.
Erdogan si avvia quindi, almeno per i prossimi cinque anni, a continuare sulla strada di una logica conservatrice, di un forte nazionalismo e di un’attenta e onnipresente religiosità. Inquadrati nella cornice di una democrazia illiberale, i valori perseguiti da Erdogan hanno concentrato nelle sue mani la maggior parte dei poteri, sacrificando grandi componenti dello stato di diritto, imbavagliando la giustizia e la libertà di stampa e di espressione.
Non solo, ma la catastrofica situazione economica della Turchia e l’inflazione che distrugge il potere d’acquisto dei turchi, nonché la gestione e le responsabilità messe in evidenza dal terremoto del febbraio scorso, non hanno pesato più di tanto nelle urne, preferendo premiare la fedeltà ad un leader sempre più forte nonché la garanzia di continuità rispetto a quanto è stato fatto per lo sviluppo del Paese, per le sue infrastrutture e per la sua modernità.
Resta tuttavia il fatto che le sfide che si aprono davanti a Erdogan non sono da poco. Come messo in particolare evidenza durante la campagna elettorale e in particolare nel secondo turno, la ricostruzione delle zone terremotate e il problema dei rifugiati siriani in Turchia rappresentano i dossier più sensibili in politica interna. Cresce infatti da alcuni anni a questa parte una sorta di intolleranza nei confronti di questi ultimi, percepiti sempre più come una minaccia all’economia e alla sicurezza nazionale della Turchia. Al riguardo, vale la pena ricordare che la Turchia è il Paese che ospita il maggior numero di rifugiati siriani, quasi 4 milioni di persone e che, al riguardo, Ankara ha sottoscritto, nel 2016, un accordo con l’Unione Europea, per gestire il problema e contrastare l’immigrazione clandestina. L’obiettivo del Presidente Erdogan sarebbe quindi quello di sostenere una politica di rientro volontario, malgrado tutte le difficoltà che ciò rappresenta, in primis l’instabilità tuttora evidente della Siria stessa, ancora lontana da una pacificazione.
Sul piano della politica estera Erdogan continuerà la sua politica di nuovo protagonismo sulla scena internazionale. Sul versante della guerra in Ucraina, la Turchia continuerà a cercare un ruolo di mediazione, consapevole della sua dipendenza da Mosca per quanto riguarda l’energia fossile e nucleare. Una posizione che non solo mette in evidenza difficoltà e contraddizioni all’interno della NATO, ma anche nei rapporti con l’Occidente e con gli Stati Uniti in particolare. Continuerà inoltre a tessere e rafforzare rapporti con i Paesi del Medio Oriente, in particolare con l’Arabia saudita e confermerà la sua presenza nei conflitti regionali, come in Siria, in Libia o nel Caucaso del Sud.
Non mancherà nemmeno di continuare la sua penetrazione in Africa, sempre più solida e determinata da alcuni anni a questa parte. E non mancheranno nemmeno evoluzioni politiche nei confronti dell’Unione Europea, a partire dal nodo irrisolto di Cipro alla presenza turca nel Mediterraneo orientale e ai rapporti con la Grecia.