La Turchia e il “dialogo” con l’Europa

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Forte del risultato delle elezioni di novembre che hanno dato una maggioranza quasi assoluta al partito del Presidente Erdogan, l’AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo), il Primo Ministro Davutoglu ha partecipato al Vertice UE-Turchia che si è tenuto il 29 novembre a Bruxelles. Un Vertice convocato dal Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk con l’obiettivo, da una parte, di gettare le basi di una cooperazione per il contenimento e la gestione dei flussi migratori e, dall’altra, per ridare vita al processo di negoziato per l’adesione della Turchia all’Unione Europea.

Si tratta infatti di tessere nuovi rapporti con un Paese che, per la sua posizione geografica e politica, si situa sul crinale fra le due maggiori sfide che l’Europa vive in questo particolare momento: il terrorismo jihadista e l’afflusso massiccio di rifugiati provenienti soprattutto dalle varie guerre che si stanno consumando in Medio Oriente.

Una posizione, quella della Turchia, talmente strategica per l’Europa da riportare in vita un progetto di adesione in via di esaurimento e quasi abbandonato, diventato tuttavia, nel nuovo contesto geopolitico regionale e internazionale, il quadro utile per inserire questi negoziati di cooperazione, i quali, già a prima vista, dimostrano di avere prezzi molto più alti per l’Europa di quanto non avessero alcuni anni fa. E cioè di quando la prospettiva di un’adesione della Turchia era discussa in un clima politico diverso, e dove il profilo culturale e religioso del Paese, più di quello economico e strategico, aveva suscitato purtroppo perplessità su una possibile adesione.

Ma oggi gli scenari sono tragicamente cambiati e l’Europa ha un gran bisogno della Turchia. Ne ha soprattutto bisogno per affrontare il problema dell’arrivo di migliaia di profughi sulle sue coste, profughi che in gran parte transitano dalla Turchia per raggiungere l’Europa, ma anche per contenere e bloccare la partenza di quei due milioni e mezzo di rifugiati accampati temporaneamente sul suolo turco. La Turchia è ben cosciente della sua importanza e il prezzo richiesto all’Europa per rispondere positivamente e cooperare efficacemente non è soltanto finanziario (tre miliardi di euro all’anno che già fanno discutere su come e chi pagherà), ma è soprattutto politico.

La richiesta fatta infatti da Erdogan di ridar vita ai negoziati d’adesione, serve innanzitutto per conferire al suo Paese una certa legittimità internazionale, necessaria al ruolo che la Turchia deciderà di avere, da una parte, nella soluzione del conflitto siriano e dall’altra nella lotta al terrorismo. Accanto a queste considerazioni, va sottolineato che la Turchia è anche il solo Paese membro della NATO nella regione e che il suo esercito è fra i più importanti dell’Organizzazione.

Ma, per l’Unione Europea, conferire ora legittimità alla Turchia è imbarazzante, doloroso e inquietante: significa, ad esempio, accettare una deriva autoritaria del Presidente Erdogan che coniuga nazionalismo, islamismo e sospensione delle libertà e dei diritti fondamentali; significa comporre con una politica turca alquanto ambigua sullo scacchiere mediorientale, in cui, ai bordi delle faglie religiose fra sunniti e sciiti, si schierano in guerra non solo le potenze locali, ma i più importanti attori internazionali, oggi Russia in testa; significa accettare che questa ambiguità politica turca renda ancor più difficili i tentativi diplomatici o militari per risolvere e fermare i conflitti in corso, compreso quello rinato da poco con la popolazione curda; significa infine chiudere gli occhi di fronte al fatto che le condizioni di adesione della Turchia all’Unione Europea, politicamente non esistono più. Eppure la Turchia rappresenta ancora, ma solo geograficamente ed economicamente, quel ponte tra Oriente e Occidente e un crocevia strategico per il passaggio di risorse energetiche per l’Europa.

Adesso si è fatto tardi e l’Europa non è stata capace di cogliere l’opportunità di un’adesione che aveva tutta la sua ragion d’essere alcuni anni fa. Oggi ha solo il sapore di un arrogante ricatto politico fatto sulla pelle di chi fugge dalle guerre e dal terrore. Un ricatto di fronte al quale l’Europa non dove cedere per ragioni politiche e soprattutto morali.

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