A Bruxelles, il negoziato sul “Quadro finanziario UE 2014-2020” è andato come si temeva alla vigilia, forse anche un po’ peggio.
Le risorse totali effettivamente disponibili a favore dei 27 Paesi membri (dal luglio prossimo 28, con l’arrivo della Croazia) per il settennio saranno di 908,4 miliardi di euro, in riduzione di quasi 100 miliardi rispetto alla proposta iniziale della Commissione, supportata dal Parlamento europeo, con il risultato di avere per la prima volta un bilancio in contrazione del 3,5% rispetto al settennio 2007-2013, facendolo così passare sotto la barra già misera dell’1% del PIL europeo.
Purtroppo però le cattive notizie non finiscono qui, anche se non per tutti.
Continua ad andare bene alla Gran Bretagna che, contemporaneamente, difende i suoi privilegi e riesce nell’operazione-dimagrimento del bilancio europeo; alla Francia che ottiene quanto voleva per la politica agricola e alla Polonia che aumenta di quasi 4 miliardi il suo bottino; qualcosa porta a casa anche l’Italia, con una riduzione modesta del suo contributo e qualche risorsa aggiuntiva per l’agricoltura e per le politiche di coesione che dovrebbero avvantaggiare le regioni del Mezzogiorno.
Il guaio è che butta male per l’Europa nel suo insieme, proprio in un momento in cui l’UE dovrebbe aggredire con più forza di quanto fatto finora la morsa della crisi e prepararsi alle sfide del futuro. Qualche pallido segnale sul versante della crisi è venuto da un modesto aumento per le politiche di coesione e da una dotazione di sei miliardi di euro per contrastare la disoccupazione giovanile in quei Paesi – e a oggi sono ben 14 – che registrano un tasso superiore al 25% e tra questi, purtroppo, c’è l’Italia.
Ma è difficile accettare la pesante riduzione delle risorse destinate per la lotta alla povertà, quando sappiamo tutti che il fenomeno sta crescendo rapidamente, investe ormai anche il ceto medio e colpisce un numero impressionante di bambini.
Soprattutto è contrario ad ogni visione di futuro non investire sulla crescita e tagliare brutalmente i capitoli relativi all’innovazione e alla ricerca, mentre vengono aumentate le risorse per la politica agricola e, sembra di capire, non in favore di un’agricoltura di qualità.
Scendono anche le dotazioni per la politica estera, cosa che non stupisce più di tanto vista la sua inconsistenza e quella della sua attuale responsabile, Cathrine Ashton.
A Bruxelles il Presidente dimissionario Monti era andato con la volontà di migliorare la posizione dell’Italia e di puntare a un bilancio europeo all’altezza delle ambizioni dichiarate dell’UE e del suo tanto declamato impegno in favore della crescita. Su quest’ultimo punto ci vuole una buona dose di coraggio a dichiarare che il risultato complessivo per l’UE è stato soddisfacente; quanto all’Italia si tratta di un magro bottino, sia per quanto riguarda la riduzione della contribuzione al bilancio che per il rafforzamento marginale di qualche capitolo, come quello dell’agricoltura.
Gli italiani che vorranno farsi un’opinione più argomentata sull’adeguatezza o meno del bilancio europeo avranno interesse a non dare troppo credito alle valutazioni né dei protagonisti italiani del negoziato né dei nostri diversi partiti in questo periodo elettorale e a prestare una maggiore attenzione al dibattito previsto al Parlamento europeo, l’istituzione UE che non può modificare l’accordo ma lo potrebbe respingere al mittente, responsabilità non facile da assumere nella congiuntura attuale.
Se il buongiorno si vede dal mattino, risulta già chiara la posizione del Parlamento europeo espressa a negoziato concluso dalla maggioranza dei gruppi politici, Partito popolare europeo compreso, secondo i quali l’accordo di Bruxelles è inadeguato per affrontare la crisi e per lo sviluppo futuro dell’UE.