E’ con il fiato sospeso fino all’ultimo momento che la tregua fra Israele e Hamas è entrata in vigore il 19 gennaio scorso, dopo quindici mesi di una guerra che ha messo Gaza e la sua popolazione a ferro e a fuoco e ha trattenuto prigionieri, nelle mani di Hamas, gli ostaggi israeliani.
E’ una tregua fragile, negoziata per lunghi mesi dal Qatar, dall’Egitto, dagli Stati Uniti e dalla partecipazione discreta della Turchia. Una tregua che giunge su ingenti cumuli di odio fra le parti in conflitto, alla vigilia dell’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca e sul filo delle minacce di quest’ultimo al riguardo.
E’ anche una tregua che si spera preludio a un vero e proprio cessate il fuoco e che si svolgerà, in varie fasi, su un calendario di scambi di prigionieri e ostaggi, sulla sospensione dei bombardamenti su Gaza, sul ritiro dell’esercito israeliano dalle zone cuscinetto e sull’ingresso di consistenti aiuti umanitari nella Striscia. Le fasi verranno definite e attuate sulla base del rispetto o meno dei periodi di tregua.
Sebbene sia i Palestinesi, le cui terribili sofferenze sono state documentate e denunciate dalla comunità e dalla giustizia internazionali, che le famiglie degli ostaggi israeliani abbiano accolto con sollievo e manifestazioni di gioia la tregua, vero è che dietro questo accordo rimangono in sospeso tanti immediati interrogativi, senza parlare di quella soluzione politica più a lungo termine, unica garanzia di pace, sempre invocata dalla comunità internazionale ma sempre più distante, “dei due popoli, due Stati”.
I primi interrogativi riguardano la tenuta stessa della tregua, nelle mani, da una parte, di un Governo israeliano spaccato e i cui membri dell’ultradestra sono sempre pesantemente contrari all’accordo, e dall’altra, secondo i servizi americani, di un Hamas che ha reclutato tanti nuovi militanti quanti ne ha persi. In secondo luogo, non rassicurano le dichiarazioni di alcuni responsabili politici israeliani sulla possibile annessione della Cisgiordania, dichiarazioni che hanno già destato gravi preoccupazioni in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU lo scorso 20 gennaio, in quanto tale annessione, parziale o totale, rappresenterebbe “una gravissima violazione del diritto internazionale” e l’inizio di un nuovo conflitto.
Inoltre, se la tregua non porterà ad un impegno per sanare, dopo l’emergenza prevista, le tante ferite indelebili di una popolazione palestinese traumatizzata, poche sono le speranze di mantenere viva la fiammella della tregua. Non solo, ma tregua o cessate il fuoco che siano, non potranno reggere se non si affronteranno i temi di nuove prospettive politiche per il popolo palestinese anche se i margini di manovra per la diplomazia sono ormai estremamente ridotti.
Infine, se da una parte va riconosciuto il ruolo perentorio di Trump in questa tregua, dall’altra le prospettive di pace offerte dalla sua Amministrazione per la stabilità in Medio Oriente devono fare i conti con una realtà ben diversa da quella in cui sostenne gli Accordi di Abramo durante il primo mandato, in particolare per quanto riguarda la posizione strategica dell’Arabia Saudita, la quale, con la guerra a Gaza, si è non solo allontanata da Israele, ma ha continuato il suo avvicinamento a Teheran.
Questa tregua è anche un richiamo politico al ruolo dell’Europa, finora spettatrice e purtroppo solo attore umanitario di fronte a una guerra che affonda le radici in una lunga, profonda e dolorosa storia.