Tempo di bilanci pubblici, tempi di tensioni ovunque, nell’Unione Europea e nei suoi Paesi membri.
Ottobre metterà duramente alla prova quanti dovranno far quadrare i bilanci, costringendo tutti ad un esercizio di verità, lontano dalla facile propaganda politica e anche, purtroppo nell’UE, dalle serie proposte di Mario Draghi, per rilanciare l’economia europea alle prese con sfide straordinarie, tanto per l’incertezza geopolitica che per le squilibrate competizioni commerciali dell’UE con le principali economie del mondo, Cina e Stati Uniti in testa.
Cominciamo dall’Unione Europea che, nel trimestre appena aperto, dovrà affrontare impegni importanti nella casa comune e nei suoi rapporti con i suoi Stati membri.
Sono questi i mesi in cui si forma il bilancio comunitario per il 2025, in un contesto di “coperta corta” che non consente troppe illusioni sul superamento di quel misero 1% sul Prodotto interno lordo (PIL), da tempo il tetto congelato delle risorse di cui dispone annualmente l’UE.
Ancor meno ci si può fare illusioni sulla proposta di straordinarie dimensioni finanziarie avanzata da Mario Draghi nel suo “Rapporto sulla competitività” che, per mettere in salvo l’UE e la sua libertà d’azione, prevede un investimento aggiuntivo annuale attorno a 800 miliardi di euro, da reperire tra risorse private e pubbliche, in parte anche a debito.
Non sono questi i soli problemi dell’UE sul fronte caldo dei bilanci: le tocca anche il compito ingrato di sorvegliare da vicino la sostenibilità dei bilanci nazionali, in particolare per quei Paesi entrati in procedura di infrazione per deficit eccessivo. Tra i sette Paesi coinvolti, oltre Belgio, Ungheria, Malta, Polonia, Slovacchia, preoccupano due Paesi di particolare rilievo economico e politico: la Francia, seconda economia UE e l’Italia, seconda industria manifatturiera europea, entrambe con sforamenti importanti dei parametri del Patto di stabilità, tanto per il deficit che per il debito pubblico, con l’Italia purtroppo la più esposta dei due.
Una situazione che è all’origine delle difficoltà per i due Paesi impegnati in questi giorni a cercare di fare quadrare i loro conti. Ci stanno provando con il ricorso a forme di patrimoniale, come in Francia, per i nuclei familiari più ricchi e a nuove tasse per circa 20 miliardi di euro; in Italia, dove “patrimoniale” e nuove tasse sono tabù, si stanno esplorando strade non molto lontane nella sostanza, come nel caso di un prelievo sui profitti di banche, assicurazioni e aziende, maturati in condizioni particolarmente favorevoli, in particolare nel periodo del Covid, dei tassi di interesse alti e dell’incremento degli affari da parte dell’industria militare. O, ancora, con interventi più o meno contraddittori sulla fiscalità, in parte riducendo qualche agevolazione e in parte consentendo nuovi condoni.
In entrambi i Paesi, in misura diversa esposti all’erosione del consenso per le maggioranza al potere – più in Francia con un governo appeso a un filo – è difficile ridurre la spesa pubblica, con il rischio di aggravare ulteriormente settori già fortemente penalizzati come il welfare, la sanità e l’istruzione, mentre continua a crescere la spesa militare.
L’Italia in particolare, con il suo debito pubblico di quasi 3000 miliardi di euro e una crescita più debole di quanto previsto dal governo, deve fare i conti con i vincoli di un Patto di stabilità europeo, venduto a suo tempo dal governo come un suo successo negoziale, che si traduce nell’impegno pesante a ridurre progressivamente nei prossimi sette anni – che qualcuno teme corrispondano a sette anni di “vacche magre” – il suo debito, mentre non è affatto sicuro che, in assenza di risorse per gli investimenti, i futuri tassi di crescita allentino il peso del debito.
Per tutti i Paesi UE sarebbe auspicabile una riflessione sul rafforzamento della solidarietà europea: se non ancora come proposto dal Rapporto Draghi, almeno con qualcosa che cominci ad assomigliargli.