Iran alle urne

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Le recenti elezioni in Iran del 26 Febbraio scorso non sono certamente un avvenimento da mettere in secondo piano, visti i sensibili cambiamenti politici interni al Paese, nonché il nuovo contesto regionale che si è venuto a creare e sul quale soffiano venti di guerra e instabilità in tutte le direzioni.

Due gli obiettivi delle elezioni: da una parte il rinnovo dei 290 seggi del Parlamento e dall’altra gli 88 seggi dell’Assemblea degli Esperti. I risultati ci dicono che il Parlamento, grazie alla vittoria dei riformisti e dei moderati , avrà colori più miti e atteggiamenti meno intransigenti nei confronti della politica del Governo. E’ stata premiata quindi la sfida politica del Presidente Hassan Rohani, eletto nel 2013, contro la maggioranza conservatrice e ultraconservatrice che caratterizzava la composizione del precedente Parlamento, una maggioranza che ha fortemente ostacolato il negoziato sul programma nucleare iraniano e l’apertura dell’Iran a nuovi rapporti con l’Occidente.

Maggioranza di riformatori e moderati anche sul versante dei risultati dell’Assemblea degli Esperti, un concistoro di ayatollah, composto da 88 teologi dell’Islam con il compito, fra altri, di eleggere la Guida Suprema quando quella in carica muore o viene destituita. Va ricordato qui il ruolo centrale della Guida Suprema in Iran, molto più importante di quanto lo sia quello dei Presidenti o dei Primi Ministri delle nostre democrazie, tanto da rimanere in carica a vita. Ali Khamenei infatti, l’attuale Guida Suprema, rappresenta il vero potere del Paese e a lui spettano le decisioni finali in materia politica e giuridica.

Risultati quindi incoraggianti per Hassan Rohani e per i possibili futuri sviluppi della Repubblica islamica, soprattutto se si considera che il Consiglio dei Guardiani della Costituzione, l’organismo giuridico religioso incaricato di selezionare le candidature, aveva eliminato dalla competizione elettorale la maggior parte dei candidati del movimento riformatore. I segnali che vengono dalle urne indicano quindi una percezione positiva da parte degli elettori per quanto riguarda l’accordo sul nucleare e la conseguente rimozione delle sanzioni internazionali imposte all’Iran da dieci anni a questa parte. Con un Parlamento meno ostile, Rohani, il cui mandato scade a metà del 2017, potrà continuare con maggiore sicurezza le riforme relative alla liberalizzazione dell’economia e soprattutto una cauta apertura verso l’esterno.

Benché incoraggianti, sono risultati che tuttavia non lasciano ancora intravedere un cambiamento significativo per la società iraniana, in termini di libertà e di diritti fondamentali. Per ora sono praticamente inesistenti, in questo ambito, i margini di manovra per il Presidente Rohani, egli stesso parte integrante di un sistema teocratico la cui Costituzione pone la Guida Suprema religiosa al di sopra della sovranità popolare. Ma rimane questa una grande sfida per l’immediato futuro, se si pensa che la popolazione iraniana è composta al 70% di giovani al di sotto dei 30 anni, è già collegata al resto del mondo e non nasconde un profondo desiderio di cambiamento.

Sul versante esterno, la seconda grande sfida per Rohani riguarda il nuovo ruolo dell’Iran sulla scena internazionale e regionale. Se da una parte l’Iran potrebbe essere un interlocutore importante nei futuri colloqui di pace per quanto riguarda la guerra in Siria, dall’altra potrebbe instaurare nuovi rapporti con l’Arabia Saudita, Paese con il quale si ritrova oggi in più o meno aperto conflitto in quasi tutto il Medio Oriente, dalla Siria al Libano, dall’Iraq allo Yemen.

 

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