Il Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella alla XIII Conferenza degli ambasciatori e delle ambasciatrici
Signor Ministro degli Esteri,
Signor Presidente della Camera,
Signor Vice Presidente del Consiglio,
Signore e Signori membri del Governo, rappresentanti del Parlamento e di altre Istituzioni,
Signore Ambasciatrici e Signori Ambasciatori,
Signore e Signori,
intervengo sempre volentieri alla conferenza degli Ambasciatori e delle Ambasciatrici d’Italia.
È un’occasione propizia per ribadire la centralità che riveste, nell’esperienza della Repubblica, la dimensione globale in cui si trova ad agire l’Italia, abbandonate, dal dopoguerra, tragiche avventure e anacronistiche velleità e consolidate, invece, le scelte che ci hanno portato a essere protagonisti nella costruzione di organismi multilaterali e di una realtà senza precedenti quale la Unione Europea.
La Conferenza rappresenta, inoltre, un’occasione per esprimere riconoscenza a tutto il personale del Ministero per l’impegno quotidiano, sviluppato nella affermazione dei principi costituzionali che ispirano la politica estera del nostro Paese e per ringraziare per il sostegno alle funzioni che svolgo.
Attraverso l’attività dell’Ufficio Affari Diplomatici del Quirinale e nel corso delle visite all’estero – ormai oltre quaranta in questa veste – e nelle altre frequenti occasioni di incontri internazionali, ho potuto costantemente apprezzare l’alto livello di professionalità che caratterizza la nostra rete diplomatico-consolare.
Una risorsa preziosa per il Paese, caratterizzata da rigore di accesso alla carriera, imprescindibile per garantire la necessaria indipendenza professionale nello svolgimento della funzione diplomatica.
Una professionalità particolarmente utile nel convulso periodo che stiamo attraversando sul piano delle relazioni internazionali.
Il venir meno di equilibri consolidati, sinora ritenuti “certi”, determina instabilità, moltiplica i rischi, ancor di più in presenza di scelte dirette a pregiudicare l’efficacia dell’uso di “attrezzi” sin qui sperimentati nella gestione delle crisi.
Non si tratta di semplici modalità o di questioni procedimentali.
I fenomeni che osserviamo indeboliscono e sembrano voler determinare, al tempo stesso, un graduale offuscamento di valori e principi sui quali, dopo la sconfitta del nazifascismo, si sono edificate le fondamenta di una architettura internazionale basata su rapporti di pari dignità.
Numerosi e significativi anniversari, in questi ultimi anni, ci hanno dato modo di riflettere sulla nostra storia.
Il centenario dalla fine della Prima Guerra Mondiale, l’anno passato, i settanta anni dall’inizio del secondo conflitto mondiale, quest’anno, sono state occasioni preziose per rammentare quanto la nostra attuale prosperità sia risultato della lungimiranza di coloro che seppero ricostruire un’organizzazione delle relazioni internazionali che pose al centro la salvaguardia della pace e, insieme, della vita e dei diritti delle persone, contro ogni perversa logica di sopraffazione di una nazione sull’altra.
Dalla Carta di San Francisco delle Nazioni Unite, nel giugno 1945, alla creazione dell’Oece, nel 1948, si è prodotta una scia da cui sono nate organizzazioni regionali come il Patto Atlantico – di cui quest’anno ricorrono i settanta anni di vita – e, appena due anni dopo, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, dalla quale si sarebbe dipanato il percorso di progressiva integrazione continentale nel quale siamo tuttora impegnati.
Un tracciato di diritti e democrazia, di cui l’elezione a suffragio diretto del Parlamento Europeo, da parte dei popoli del continente, rappresenta uno sviluppo centrale.
La nostra politica estera, in questi decenni, si è ispirata alle scelte di libertà, che sono alla base dell’alleanza euroatlantica, e di solidarietà, proprie della costruzione europea, senza che esse implicassero una mera “navigazione di conserva”.
NATO e UE hanno rappresentato le leve solide ed efficaci grazie alle quali l’Italia ha potuto contribuire attivamente ai passaggi fondamentali che hanno caratterizzato la storia recente del nostro Continente, proiettando in un quadro più ampio i nostri interessi nazionali, testimoniando i valori della nostra cultura e sostenendo le nostre priorità, dalla libertà e dai diritti alla pace, dall’apertura dei mercati alla valorizzazione del contributo del nostro sistema produttivo, dal Mediterraneo alla stabilizzazione dei Balcani, alla partecipazione a grandi progetti in campo energetico e infrastrutturale.
Basandosi su questa architettura la Repubblica italiana ha potuto contribuire all’affermarsi di un sistema di relazioni internazionali fondato sul multilateralismo e sul rispetto del principio di parità dello status di ogni Paese.
Un approccio che ha sostenuto il consolidamento del nostro assetto democratico e che ha garantito, nel tempo, pace, libertà, sicurezza, opportunità e crescente benessere per i nostri cittadini.
Ho già accennato come, tuttavia, da qualche anno, si vadano diffondendo fenomeni di erosione progressiva di un assetto internazionale che, soltanto qualche anno addietro, appariva acquisito e in grado di produrre crescenti risultati positivi.
All’inizio del nuovo millennio, la crisi successiva al proditorio attacco alle Torri Gemelle ha portato in primo piano un’accresciuta domanda di sicurezza, resa ancor più acuta dal diffondersi del terrorismo in ogni latitudine. La successiva crisi finanziaria e poi economica, ha reso ancor più palpabile un diffuso senso di timore rispetto al “domani” individuale e collettivo.
Da qui un’accresciuta “domanda” di protezione, che si è sviluppata soprattutto nella dimensione domestica di ogni Stato, quasi che da essa potessero venire risposte risolutive, nonostante il carattere internazionale di ogni sfida: di quella terroristica, soprattutto di matrice islamista, come di quelle, prevedibili ma non adeguatamente governate, del lavoro, ambientale, migratoria.
Un sentimento che in Europa, in particolare, ha messo a nudo lo stato ancora imperfetto del processo di integrazione, mentre si accreditava l’attesa di possibili risposte dal livello comunitario e, allo stesso tempo, da molti degli Stati membri, si negavano sia il coordinamento delle necessarie politiche sia l’attribuzione di corrispondenti poteri.
Un quadro, quello delineato, che unito alle dinamiche che caratterizzano le nuove tecnologie della comunicazione ha visto risposte frammentarie, talvolta contraddittorie e, comunque, non all’altezza dell’ampiezza e dello spessore degli avvenimenti.
Resta tuttavia acquisito un dato, incontrovertibile.
Se, prima delle crisi di questi anni, la ragione intrinseca del nostro “stare insieme” in Europa era sostanzialmente basata sul monito lanciato dai padri fondatori, “mai più guerra”, oggi quell’impegno si carica di significati ancora più complessi alla luce della situazione che si profila.
Abbiamo conosciuto diverse forme di contrasto in questi settantaquattro anni dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale. Dalla “guerra fredda” alle guerre per procura nelle aree periferiche, al conflitto Est-Ovest, alla competizione per la supremazia tecnologica, spesso commista al controllo di risorse rare, alle guerre commerciali.
Il tema che le accomuna è, sempre, quello della supremazia di uno Stato su altri, di popoli su altri.
Oggi, in più, registriamo l’irrompere sulla scena di operatori globali, protesi a sottrarsi alle regole delle singole comunità nazionali e riottosi all’introduzione di regolamentazioni internazionali.
Ebbene, nessuno può immaginare di mantenere o innalzare gli attuali livelli di democrazia, sicurezza e prosperità, e le connesse garanzie per i cittadini, se non nell’ambito di un sistema sovranazionale che, essendo fortemente interconnesso dal punto di vista finanziario, economico e della comunicazione, si dia delle regole comuni.
Per quanto ci riguarda, la dimensione nella quale possiamo investire per ottenere questi indispensabili risultati è quella dell’Unione Europea, unica che può garantire ai nostri concittadini un livello di indipendenza e libertà quale abbiamo conosciuto dall’avvento della Repubblica.
L’unica che può consentire all’insieme dei Paesi dell’Unione, ai loro valori e alle loro economie un peso adeguato nella dimensione internazionale, sempre più caratterizzata e condizionata da soggetti di grandi dimensioni.
Il tema scelto per questa conferenza “La politica estera italiana verso l’orizzonte 2030: tra continuità e cambiamento” è, in questo senso, stimolante.
Continuità significa che il nostro interesse nazionale può essere affermato nella costruzione di un orizzonte comune con i nostri partner che ci consenta di rimanere al passo con i tempi, affrontare le sfide, competere con i vecchi e i nuovi attori internazionali, realizzare un sistema di regole internazionali coerente con i nostri valori di libertà ed eguaglianza.
Il cambiamento risiede nella capacità di incidere positivamente, con costanza e applicazione, senza lacerazioni né avventurose fughe in avanti, nei processi in corso. Vale per delicati colloqui di pace che riguardano ambiti elettivi della nostra politica estera o rischi potenziali per la sicurezza del nostro Paese. Vale per negoziati, primi fra tutti, nella UE, quello relativo al completamento dell’architettura dell’eurozona e quello aperto circa l’approfondimento della partecipazione del Parlamento Europeo alla definizione di nuovi assetti istituzionali, annunciato dal neo eletto presidente dell’Assemblea, David Sassoli.
Allargando l’orizzonte a un contesto globale, il compito al quale siamo chiamati – come Paese inserito nel contesto europeo – è quello di contribuire a regolare tutti quegli ambiti, e sono sempre più numerosi, nei quali le normative nazionali perdono progressivamente di significato.
Penso, ad esempio, al clima, alla tutela dell’ambiente o alla lotta al terrorismo e alle minacce ibride, ma anche a settori assolutamente diversi e in qualche misura nuovi, come la tassazione delle grandi imprese o la regolamentazione dei cosiddetti “giganti del web” nella tutela della privacy dei cittadini.
Signore Ambasciatrici e Signori Ambasciatori,
Sono temi ai quali le nuove Istituzioni comuni dovranno fornire risposte rapide, ambiziose e in linea con i tempi.
Colgo l’occasione per esprimere congratulazioni alla nuova Presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, augurandole successo nell’impegnativo compito al quale è stata chiamata.
L’Unione Europea rappresenta, quindi, il primo perimetro dell’azione della nostra diplomazia, della nostra stessa proiezione internazionale.
L’Unione non è altro rispetto a noi stessi.
Limitarsi a lamentare disagio, ad affermare una sua inettitudine nell’offrire risultati auspicati, rischia di apparire un esercizio autolesionista, una dichiarazione di insuccesso nell’incidere sulle sue decisioni.
L’Unione va, piuttosto, costruttivamente sollecitata a rispondere con azioni che ne rispecchino pienamente la spinta ideale e la forza, perché attraverso di essa possiamo far emergere al meglio le nostre specificità, apportare il nostro contributo di idee e la nostra visione del mondo e delle relazioni internazionali.
L’Unione è il luogo nel quale confrontarsi e riuscire – nel necessario reciproco rispetto – a rispondere alle sfide.
L’esercizio paziente di costruzione ha fatto registrare rilevanti passi in avanti, con strumenti, quali la PESCO, che ne consolidano la proiezione esterna. Voler giocare un ruolo globale, da protagonisti delle relazioni internazionali, in grado di “sedere al tavolo” dei grandi, significa, per noi europei, rafforzare l’Unione.
A questo riguardo non posso fare a meno di rilevare una tendenza crescente – che giudico pericolosamente erronea – verso meccanismi e pratiche di carattere intergovernativo, che sempre più pervade la vita dell’Unione.
Si tratta di una tendenza che rischia di cambiare il carattere dello storico processo di integrazione.
Nel corso dei decenni – come sanno bene gli ambasciatori – questo ha sempre registrato la presenza di due diverse visioni, sin dall’inizio: quella comunitaria e quella intergovernativa.
La prima, più in linea con le intenzioni e le speranze dei fondatori, volta a conferire l’esercizio di attribuzioni e competenze agli organi comuni, portatori di una visione complessivamente europea e non meramente sommatoria di scelte di singoli Paesi membri, inevitabilmente al ribasso. La seconda – quella intergovernativa, fatta propria soprattutto da alcuni Paesi di più recente adesione – che individua nell’Unione un conveniente quadro in cui gli Stati membri collaborano, sul piano economico e commerciale, mantenendo ben salda nelle loro distinte mani la formulazione di strategie e di decisioni.
Quest’ultima appare, oggi, prevalere anche in Paesi fondatori e sembra sviluppare un orientamento che può trasformarsi in consolidata concezione di base, in forma mentis. Un rischio di una fase di “glaciazione” nella vita dell’Unione.
Ne risulterebbe – a mio avviso – indebolita, per i popoli europei, la possibilità di esprimersi in maniera efficace e protagonista nella vita della comunità internazionale.
Soltanto con l’Unione potremo trasformare le prove in altrettante opportunità.
Penso, ad esempio, alla inclusione dei Balcani occidentali, alla stabilizzazione della sponda sud del Mediterraneo, allo sviluppo dell’Africa, Continente destinato sempre più ad assumere per l’Europa la veste di partner privilegiato e indispensabile.
Il contributo alla stabilità e alla pace internazionale, offerto dalla UE in questi decenni, deve arricchirsi, sempre più, con l’apporto valido e positivo al rapporto transatlantico.
Il dibattito all’interno dell’Alleanza Atlantica non può ridursi al tema delle asimmetrie nella contribuzione finanziaria (si pensi, ad esempio, al rilevante contributo delle Forze armate italiane alle missioni di pace) o incentrarsi in maniera pressoché esclusiva sulla questione dell’equilibrio dei rapporti di un riemerso contenzioso Est-Ovest, trascurando altri versanti.
Esiste un piano che occorre approfondire costantemente.
Riguarda il ruolo dell’Alleanza in una visione che colleghi il presente al futuro, per rendere sempre attuali i valori di libertà, di pace e di sicurezza su cui si basa il Trattato di Washington.
La perdurante centralità del Patto Atlantico emerge con evidenza, soprattutto a fronte del progressivo abbandono degli strumenti di non proliferazione e di controllo degli armamenti.
Su questo non sono possibili tentennamenti o ambiguità e occorre, anzi, una parola di chiarezza da parte, anzitutto, dei principali attori.
Signore Ambasciatrici e Signori Ambasciatori,
Un clima crescente di competizione caratterizza i rapporti internazionali in questa epoca di multipolarismo e di scomposizione degli ambiti strategici.
Tanto più appare, allora, necessario ribadire il valore di un efficace multilateralismo.
La costruzione di un nuovo mondo passò, nel 1944, dalla definizione, a Bretton Woods, di nuove regole nelle relazioni finanziarie e commerciali.
Alla base di questo sforzo vi era una consapevolezza, esplicitata nelle parole dell’allora Segretario al Tesoro statunitense, Morgenthau: “Siamo giunti alla conclusione che il modo più saggio ed efficiente di proteggere i nostri interessi nazionali passi attraverso la cooperazione internazionale… unendo gli sforzi per raggiungere obiettivi comuni”.
Difficile trovare, ancor oggi, parole più valide.
La tendenza a rendere esclusivamente bilaterali le questioni internazionali si pone in antitesi rispetto a tale approccio e rappresenta un passo a ritroso nella storia.
Il ritorno a logiche mercantilistiche, a giochi “a somma zero”, riporta il sistema delle relazioni internazionali non soltanto indietro nel tempo, ma anche pericolosamente vicino a linee di frizione quasi “esistenziali”, con conseguenze negative facilmente prevedibili, e scenari che tutti dichiariamo di voler evitare.
Signor Ministro,
Signore Ambasciatrici e Signori Ambasciatori,
la nostra diplomazia non deve mancare di far sentire in tutti i contesti internazionali, bilaterali e multilaterali, il richiamo alla ragione, all’equilibrio, alla saggezza, alla ricerca, per quanto faticosa, di soluzioni condivise e sostenibili.
Il nostro interesse nazionale riposa sul mantenimento della pace, sulla condivisione del rispetto dei diritti umani, sulla apertura e sicurezza degli scambi, su una costante crescita economica e sociale che tenda alla progressiva riduzione delle diseguaglianze fra i Paesi e all’interno delle singole comunità. Obiettivi che possiamo conseguire soltanto attraverso una capillare azione che ci veda attivi e operosi protagonisti, accanto ai nostri partner europei e nel legame transatlantico.
Si tratta, allora, di essere capaci di “leggere” gli avvenimenti in una prospettiva ampia, suscettibile di anticipare scenari, individuare convergenze, tessere alleanze, prevedere “punti di caduta”, senza improvvisazioni né valutazioni approssimative.
Il mondo globalizzato è caratterizzato da reti e rapporti complessi.
C’è stata un’epoca in cui le ambascerie aprivano strade per i commerci, mettevano in contatto culture, ambivano ad essere veicoli di nuove amicizie.
Seguita da altre, in cui le rappresentanze diplomatiche apparivano avamposti ostili in territori stranieri, in attesa di consegnare talvolta, di solito nottetempo, dichiarazioni di guerra.
L’ambizione della Repubblica deve essere quella di rappresentare un modello di valori e un esempio di successo per la comunità internazionale.
Sappiamo – Signore Ambasciatrici e Signori Ambasciatori – di poter contare pienamente sul vostro lavoro.