Il mondo arabo in fermento

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Le turbolenze iniziano il 17 dicembre 2010 con l’atto disperato del giovane venditore ambulante tunisino Mohamed Bouazizi. Laureato, Mohamed vendeva frutta e verdura per strada e quel giorno la polizia gli aveva sequestrato la sua merce e vietato il commercio. Mohamed si dà   fuoco, morirà   il 5 gennaio. Nel frattempo tutta la Tunisia si infiamma, si ribella, scende coraggiosamente in piazza, affronta la violenza della polizia e il 15 gennaio rovescia il regime del Presidente Zine el Abidine Ben Ali’. Un presidente in carica da 23 anni e che aveva tutta l’intenzione di continuare a regnare. Noi l’abbiamo definita la rivolta contro l’aumento del prezzo del pane, la rivolta contro l’aumento dei prezzi delle derrate alimentari, dei beni di prima necessità  , la rivolta contro la mancanza di futuro per una popolazione prevalentemente composta da giovani, spesso con un grado elevato di istruzione. I tunisini l’hanno invece definita la «rivoluzione dei gelsomini», a ricordo di altre rivoluzioni e a significare non solo la mancanza di prospettive per migliori condizioni di vita, ma anche la mancanza di libertà  , la negazione dei diritti, il rifiuto di una pesante dittatura e la richiesta di democrazia.
Che tutto questo sia successo nella calma Tunisia, ha colto un po’ tutti, purtroppo, di sorpresa. Abituati a guardare con occhio inquieto solo all’immigrazione o con occhio benevolo al ruolo di sponda che l’ormai ex Presidente aveva nel contrasto all’integralismo islamico, non si è voluto percepire che sull’altra sponda del Mediterraneo e alle immediate frontiere dell’Europa si stava consumando la rassegnazione di un popolo nei confronti di una dignità   negata. Ora rimane per la Tunisia, dopo un mese di manifestazioni che hanno lasciato per le strade morti e feriti, l’incertezza del futuro, tra un governo di unità   nazionale appena nominato e dalle incerte prospettive, la preparazione di elezioni fra sette mesi e la paura che, nel periodo di transizione, il potere possa essere strumentalizzato, occupato o rioccupato da chi con la democrazia ha poco a che vedere. Negli ultimi giorni, il susseguirsi delle manifestazioni ha dimostrato un’ulteriore radicalizzazione di chi vuole consumare definitivamente la rottura con il passato.
Ma la rivoluzione dei gelsomini sembra aver messo in moto fremiti che vanno ben al di là   delle frontiere tunisine. La vicina Algeria, paese assai diverso dalla Tunisia per la sua recente storia e per le sue ricchezze di gas e petrolio, è stata percorsa nel mese di gennaio da manifestazioni che avevano preso avvio dal forte rincaro del prezzo dell’olio, dello zucchero e della farina. Un rincaro che ha fatto scattare la molla di un malcontento diffuso nel paese, la denuncia di quel profondo disagio soprattutto dei giovani, dovuto anche qui alla mancanza di lavoro, di alloggi decenti, di prospettive future. Una situazione che sembrava apparentemente rientrata ma che, proprio in questi ultimi giorni ha portato altri giovani a darsi fuoco e a morire, proprio come Mohamed in Tunisia.
La situazione ha creato preoccupazioni anche in altri paesi del mondo arabo. Il presidente egiziano Osni Mubarak, al potere dal 1980 e candidato per un sesto mandato alle prossime elezioni di settembre, ha deciso inaspettatamente di prolungare il periodo durante il quale le piccole formazioni politiche rappresentate in Parlamento potranno presentare una candidatura per l’elezione presidenziale. Ricordiamo qui che le ultime elezioni legislative del novembre 2010 erano state segnate dall’esclusione dei principali partiti di opposizione. Intanto anche in Egitto altri Mohamed si sono immolati col fuoco.
La Siria ha deciso di aumentare di più del 70% le sovvenzioni a funzionari e pensionati per i combustibili di riscaldamento, mentre la Giordania, dopo un inizio di rivolta della popolazione ha stanziato più di 200.000 milioni di dollari per ridurre i prezzi dei combustibili e dei prodotto alimentari di base. Nello Yemen, dove una riforma costituzionale potrebbe conferire la presidenza a vita per Ali Abdallah Saleh, gli studenti sono scesi in piazza per salutare la rivoluzione tunisina.
Nell’area mediorientale ci sono altri pericolosi focolai di tensione. Il Libano è senza governo da quando, il 12 gennaio scorso, undici Ministri della coalizione degli Hesbollah hanno dato le dimissioni, inaugurando una nuova stagione di incertezze sul futuro politico del paese. E accanto al Libano, le tensioni e il conflitto mai risolto fra Israele e i palestinesi, la cui soluzione sembra allontanarsi sempre più.
Un mondo in fermento quindi e in preda a forti turbolenze di cui non possiamo, al momento, prevedere gli esiti a lungo termine.
L’Unione Europea e i suoi Paesi membri hanno tentato, a partire dal 1995 con il Processo di Barcellona prima e poi con il progetto di Unione per il Mediterraneo nel 2008 di stabilire rapporti di cooperazione con i paesi dell’area. Ad oggi l’impegno e i risultati non si sono rivelati adeguati ad una situazione che rivela sempre più la sua complessità   e la sua sensibilità   geopolitica. Ma forse, al cuore di quella cooperazione mancava soprattutto l’impegno e l’attenzione alla gente, ai loro diritti e al loro futuro. E’ il triste risultato di quello che significa, in termini di responsabilità  , cooperare con dittature o con chi non vuole iniziare un vero e coraggioso processo di pace.
Ma in questi ultimi giorni anche le sponde nordorientali del Mediterraneo sono state scosse da impreviste turbolenze. Seppur con ragioni diverse e nel contesto di una democrazia ancora fragile, anche l’Albania ha conosciuto manifestazioni, violenze e morti.

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