In questi ultimi tempi chi s’interrogava sul futuro dell’Italia guardava soprattutto sul suo futuro politico e istituzionale. Fortunatamente – o fortunosamente – messo al sicuro per qualche anno l’assetto istituzionale della Repubblica con la rielezione di Sergio Mattarella, adesso gli occhi si concentrano sulle attività del governo e, in particolare, sulla realizzazione del “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (PNRR) che qualche preoccupazione la desta. Già si sente il fiatone nella corsa alla realizzazione degli impegnativi traguardi concordati dall’Italia con l’Europa, cui sono vincolati i prossimi importanti versamenti dell’UE. Fra poco sarà un anno che il PNRR è stato proposto dal governo italiano e approvato da Bruxelles e le realizzazioni concrete stentano a farsi vedere.
Particolarmente difficili da condurre in porto le riforme della Pubblica Amministrazione e della giustizia, senza dimenticare quelle del fisco e della concorrenza.
Conforta che intanto, nel corso del 2021, l’economia italiana sia cresciuta del 6,5% dopo il crollo dell’8% nel 2020 e che ci sia una previsione di crescita del 4% nel 2022, sempre che l’impennata dei prezzi e dell’inflazione non pesi troppo e non induca troppo presto la Banca centrale europea a raffreddare la sua politica monetaria espansiva con pesanti conseguenze sul peso del nostro impressionante debito pubblico che aumenta di giorno in giorno.
Su questo sfondo di incertezza si sono venute a collocare i numeri sul lavoro in Italia diffusi nei giorni scorsi dall’Istat. Come sempre statistiche non facili da interpretare tra percentuali e numeri assoluti: le prime che dicono di un miglioramento del nostro mercato del lavoro, i secondi che registrano una ancora insufficiente ripresa di occupazione tra quanti l’hanno persa dall’inizio pandemia, senza contare che il 60% di chi ha trovato lavoro lo ha fatto con impieghi precari, in particolare per le donne, rivelando al contempo un “buco demografico” nelle varie classi di età che non è di buon auspicio in prospettiva, in particolare per gli under 24 con una disoccupazione al 27%, tre volte superiore alla media nazionale.
I sindacati hanno fatto rilevare che “il Pil avanza del 6,5%, il lavoro tre volte meno: lo sviluppo non si trasmette in modo consistente all’occupazione e quella aggiuntiva è per due terzi a tempo, con un peggioramento negli ultimi mesi in cui il lavoro stabile non cresce più”.
Ritorna a questo punto un interrogativo: quanto può incidere sull’occupazione, soprattutto quella stabile, il PNRR? La risposta è per il momento sospesa e molte sono le voci preoccupate sulla creazione di lavoro da parte del PNRR quando si tiene conto che, da un’analisi dei diversi Piani nazionali, risulta che con un investimento di un milione di euro la Germania crea 4,8 posti di lavoro, la Spagna 3,6, il Portogallo 2,9, la Grecia 2,0 e l’Italia solo 1,3.
E’ chiaro che qui si gioca non solo il futuro dell’economia italiana ma anche il futuro del nostro Paese, se mai si dovesse saldare il nostro crescente deficit demografico con un’insufficiente crescita dell’occupazione, in particolare di quella giovanile. Ne va dell’equità sociale e quindi della coesione di una società già molto frammentata cui fa riscontro una politica incapace di convergere verso queste urgenze, tanto più in un anno che si annuncia a forte tasso di litigiosità elettorale.
C’è da sperare che del problema si ricordino i cittadini italiani, i giovani soprattutto, al momento della consultazione elettorale dell’anno prossimo.