Il “fantastico piano di pace” di Trump per la Palestina

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Era atteso ormai da molti mesi, ma le vicende elettorali di Israele, ormai al suo terzo scrutinio per formare un Governo, avevano di volta in volta rimandato la presentazione del piano di pace del Presidente Trump per mettere fine al conflitto fra Israele e Palestina.

In occasione della visita alla Casa Bianca del primo Ministro ad interim Benjamin Netanyahu e del suo rivale politico Benny Gantz, ambedue invitati  da Trump e ambedue in piena campagna elettorale, il Presidente americano ha finalmente sollevato il velo su quello che lui stesso ha definito un “piano fantastico” per la pace, una componente politica essenziale al piano economico già presentato nel giugno scorso : 50 miliardi di  dollari di investimenti internazionali nei Territori palestinesi e nei Paesi arabi limitrofi in dieci anni.

Al di là del momento scelto per la presentazione del piano di pace, non a caso un momento di fragilità politica sia per il primo Ministro israeliano, sotto accusa di corruzione, che per il Presidente Trump, alle prese con una procedura di destituzione in corso e l’apertura di una campagna elettorale per le elezioni di fine anno, va immediatamente sottolineato che l’Autorità palestinese, non coinvolta nelle discussioni preparatorie, ha già categoricamente rifiutato il piano di pace. 

Il nodo centrale di tale rifiuto risponde  alle vistose concessioni fatte da Trump ad Israele, in particolare il riconoscimento di Gerusalemme come capitale e la legittimazione degli insediamenti civili israeliani in Cisgiordania e al fatto che l’Aurtorità Palestinese non puo’ considerare gli Stati Uniti come mediatori equi e neutrali di un eventuale processo di pace. In queste condizioni, è facile intuire quanto fragili siano le basi di questo piano, tanto da spingere i Palestinesi a minacciare di uscire dagli Accordi di Oslo che regolano attualmente le loro relazioni con Israele.

Le proposte americane, presentate come un’inedita e ultima possibilità di pace da Trump, si basano essenzialmente sulla garanzia di sicurezza per Israele. Vertono in particolare  sull’ormai indiscusso riconoscimento degli insediamenti e delle colonie israeliane in Cisgiordania, sull’annessione da parte di Israele della Valle del Giordano, lasciando ai Palestinesi territori sparsi a macchia di leopardo e isolati gli uni dagli altri.  Si tratta di un piano di pace che, in una tale situazione, prevederebbe ancora la creazione di un improbabile Stato palestinese, vincolata a pesanti condizioni. Tale Stato potrebbe avere una capitale palestinese a Gerusalemme est ma, nello stesso tempo, il piano di pace prevede che Gerusalemme rimanga incontestabilmente capitale indivisa di Israele. E’ previsto inoltre che il territorio offerto ai Palestinesi per il loro futuro Stato possa raddoppiare, con la garanzia, inoltre, che non vi saranno insediamenti israeliani per almeno quattro anni. Difficile immaginare in queste condizioni la fattibilità di un piano di pace messo a punto solo con Israele e che non tiene minimamente conto di una realtà ormai consolidata e a tutto sfavore della costituzione di un vero Stato palestinese.

Si tratta ovviamente di un piano che il premier Netanyahu non ha esitato a definire “storico” e che mette i Palestinesi davanti ad una temibile sfida per il loro futuro e per la loro sovranità, offrendo in cambio di dignità politica e giustizia, investimenti economici. L’impressione naturalmente è che non si tratta di un piano di pace ma di uno strumento che potrebbe rivelarsi un grimaldello per aprire nuovi fronti di instabilità in Medio Oriente. 

Resta da capire quale sarà la reazione della comunità internazionale e dell’Unione Europea in particolare, nel momento in cui il popolo palestinese chiede di prendere posizione contro un “piano di pace” americano che ha come obiettivo quello di ridurlo al silenzio.

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