Gran Bretagna, dentro o fuori dell’UE?

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È ormai da tempo che la Manica si va allargando e che la Gran Bretagna si interroga sulla sua partecipazione all’avventura dell’integrazione europea.

La storia dell’oscillante presenza inglese nell’UE è una storia vecchia: da Churchill alla Thatcher, da Blair a Cameron è stato un balletto permanente tra la promozione di un’Europa da ricostruire insieme dopo la seconda guerra mondiale, con il chiaro obiettivo inglese di sostituire il perduto mercato imperiale di un tempo con il nuovo mercato europeo e non andare molto oltre.

Essere nell’UE senza esserci troppo: un disegno che sollevava la diffidenza degli altri europei, De Gaulle in testa, ma che piaceva agli USA in nome della loro tradizionale “special relationship”.

Adesso la Gran Bretagna è nell’UE da quarant’anni e da allora molte cose si sono chiarite, ma non ancora abbastanza per sapere come finirà.

È chiara la strategia inglese di stare nell’UE per ricavarne i massimi vantaggi finanziari e commerciali possibili, offrirsi come l’interlocutore privilegiato verso gli USA, senza tuttavia aderire al progetto di un’unione politica che contraddirebbe la sua indipendenza insulare. Un’indipendenza che va ben oltre il rifiuto del sistema metrico decimale, dell’ora legale e della guida a sinistra.

Pesano molto di più i rifiuti accumulati nel corso della presenza inglese nell’UE: da quello dell’euro, del trattato di Scenghen sulla libera circolazione, dell’accordo sul mandato di cattura europeo, del recente Patto di bilancio e della “Tobin tax” sulle transazioni finanziarie, per non dire delle ricorrenti risse sul bilancio comunitario, che ritroveremo presto. E dopo il discorso di Cameron in Olanda il 18 gennaio si prospettano altri rifiuti e tensioni con l’UE, nella quale la Gran Bretagna conta di rimanere, ma standosene il più possibile fuori senza pagare i prezzi politici della sua partecipazione.

La crisi finanziaria ed economica, all’origine di non poche tensioni nell’eurozona, ha occultato per qualche tempo quelle che andavano crescendo con la Gran Bretagna e oggi sono molti gli osservatori che, senza ritenere per ora probabile un’uscita inglese dall’UE, cominciano a considerarla possibile.

Una svolta che allarma qualcuno e fa sperare altri. La sperano i sostenitori di un referendum anti –UE, che potrebbe contare su una leggera maggioranza, e che Cameron non esclude dopo il 2015, sotto pressione dell’ala destra del suo partito, preoccupato per lo spazio che va conquistando il Partito dell’indipendenza, ultra-nazionalista, anti-europeista e xenofobo.

Molto allarmati sono invece i contrari all’addio all’UE: dagli ambienti finanziari della City alla Confindustria inglese, dal redivivo Blair ai liberal-democratici di Clegg, dall’ala moderata dei conservatori fino agli USA, in difesa della “special relationship”. Non è un caso che, giorni fa, Obama abbia inviato a Londra il suo sottosegretario agli Esteri per dissuadere Cameron da un allontanamento dall’UE proprio alla vigilia del progetto di un’alleanza commerciale USA-UE per la creazione di un mercato unico euro-americano con l’obiettivo di competere insieme con i nuovi mercati emergenti.

A questo punto sarebbe bene capire che cosa ne pensano i partner europei e l’Italia. Molto critica e irritata la posizione di Bruxelles, sempre diffidente la Francia e, come sempre, incerta Angela Merkel, cosciente che se vuole davvero promuovere una vera Unione politica europea non può tergiversare a lungo.

In Italia il governo di Monti, “tecnico” liberista, ha purtroppo più blandito che contrastato Cameron; del centro-destra si conoscono le oscillazioni in politica estera e l’insofferenza verso l’integrazione europea, osteggiata dalla componente leghista. Sarebbe bene che il centro-sinistra parlasse più chiaramente, tirando tutte le conseguenze della sua scelta in favore di un rilancio del processo di integrazione europea e ricavasse per l’Italia un ruolo motore in una nuova Europa, più sociale e politica e non solo finanziaria e mercantile.

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