Forte caos globale, deboli leader locali

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Ci sono stagioni nella storia del mondo segnate da forti turbolenze senza che all’orizzonte si intraveda chi potrebbe governarle e ridurne gli effetti negativi. E’ probabile che la nostra sia una di quelle stagioni, nelle quali fanno difetto grandi leader capaci di rispondere alle sfide del momento.

Sembrava confermarlo, almeno in parte, il tavolo che al Vertice NATO di Varsavia riuniva i leader dei 28 Paesi membri dell’Alleanza Atlantica, praticamente di tutto il mondo occidentale.

Spiccava tra tutti Barack Obama, il primo presidente di colore USA, alle prese con i disordini razziali scoppiati a casa sua e impotente a fermare la lobby delle armi. Per non dire delle sue difficoltà a far rientrare i soldati americani dai teatri di guerra provocati dai suoi predecessori e a rassicurare gli alleati, non tanto sul fronte russo, quanto piuttosto su quello del terrorismo islamista. Ormai mancano pochi mesi al termine del suo duplice mandato che tante speranze aveva suscitato nel mondo. Un lungo mandato che si conclude con una accesa vigilia elettorale che al rischio della successione inquietante di un personaggio come Donald Trump si oppone la prospettiva non proprio esaltante di Hillary Clinton, con il ritorno dinastico delle grandi famiglie bianche.

Più modesto il restante “parterre des rois”, seduti attorno a quel tavolo a Varsavia, a cominciare dall’unico vero “uomo di Stato”, come è stata definita la Cancelliera tedesca, Angela Merkel, dalla quale da tempo si aspetta invano qualche forte iniziativa per rilanciare l’Unione Europea. Un’attesa finora delusa, tanta è la sua riluttanza a prendere la testa di un’avanguardia europea, paralizzata dalle elezioni legislative dell’autunno 2017.

Molto più ammaccato di lei il Presidente della Repubblica francese, alla guida di una Paese demoralizzato e in forte declino, minacciato dall’ondata estremista di destra del Front National, probabile vincitore del primo turno alle elezioni presidenziali del maggio prossimo.

Più imbarazzato di tutti quel David Cameron, primo ministro britannico che ha sperperato la sua recente grande vittoria elettorale con uno sciagurato referendum conclusosi rovinosamente, per il suo Paese e per l’UE. Cameron, non ha potuto evitare le dimissioni, e con lui hanno lasciato l’ex-sindaco brexista di Londra, Boris Johnson, e il leader dell’UKIP, Nigel Farage, ex-alleato del Movimento Cinque Stelle al Parlamento europeo, e sta per andarsene anche il leader laburista Jeremy Corbyn.

Il giro attorno al tavolo continua con altri personaggi minori: il Presidente della Commissione Europea, Jean Claude Junker, spinto da alcuni alle dimissioni, mentre la sua Istituzione viene ulteriormente depotenziata. Non merita molte parole il suo ininfluente collega, il Presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, docilmente al servizio dell’egemone Germania e fedele interprete del Partito popolare europeo.

In una compagnia del genere finiva per brillare, se non altro per vivacità, il Presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, in questa fase il più europeista della compagnia e il più determinato nella vicenda di Brexit. Purtroppo a quel tavolo Renzi rappresenta un Paese fragile, con una vita politica in affanno e un’economia e un sistema bancario in difficoltà: non sono le migliori credenziali per chi si siede al tavolo dei “potenti”. Fortuna per lui  – un po’ meno per l’Europa – che i suoi colleghi alla fine tanto “potenti” non sono.

 

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