Europa e pensioni

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Si parlerà   ancora a lungo dell’accordo raggiunto l’altro giorno dal Governo sulla riforma delle pensioni. Subito dopo le vacanze, l’argomento sarà   oggetto di prevedibili tensioni al momento dell’esame in Parlamento e non solo tra maggioranza ed opposizione ma anche all’interno della stessa maggioranza che sostiene – si fa per dire – il Governo. Forse per allora sarà   possibile vederci un po’ più chiaro su un compromesso particolarmente complicato che nelle sue pieghe nasconde non pochi rinvii a scadenze prudentemente collocate nella prossima legislatura.
Su tutti questi punti si eserciteranno esperti e commentatori e non è detto che alla fine ci vedremo molto più chiaro. Contribuiranno alla confusione anche gli opposti appelli al “verbo” di Bruxelles, invocato da alcuni per legittimare l’accordo e da altri per denunciarne la trasgressione. Non è improbabile trovare tra questi ultimi molti di quelli – un nome per tutti, l’on. Giulio Tremonti – che quando erano al Governo snobbavano i “diktat” dell’UE e che domani invocheranno devotamente l’esecuzione immediata delle «sagge ingiunzioni» che verranno da Bruxelles.
Puಠessere utile approfittare di questo momento di intervallo concesso dalle vacanze per proporre alcune modeste considerazioni sul valore e la portata delle raccomandazioni che verranno a tempo debito formulate dalle Istituzioni comunitarie.
Cominciando col dire e ripetere che a tutt’oggi i Trattati UE – e sarà   così ancora per molti anni – non affidano all’UE una competenza diretta sui sistemi di sicurezza sociale, e quindi pensionistici, che restano nella totale responsabilità   degli Stati nazionali. Questo non significa che Bruxelles commetta un’indebita ingerenza quando formula valutazioni sulle decisioni adottate in materia dai singoli Stati membri. E questo per almeno due buone ragioni: la rilevanza finanziaria della materia incide profondamente da una parte sulla salute dei conti pubblici e dall’altra sulla politica redistributiva e quindi sul modello sociale e la competitività   relativa di ciascun Paese.
Sappiamo bene quanto l’Italia preoccupi da sempre l’UE, in particolare da quando siamo parte della moneta unica, per il suo persistente deficit annuale (superiore al 3% concordato sul PIL) e ancor più per l’enorme debito pubblico consolidato che non accenna a ridursi in modo significativo, con la conseguenza di costare ogni anno al bilancio dello Stato ben 75 miliardi di euro di soli interessi. Non per nulla l’Italia è attualmente sottoposta ad una “procedura di infrazione” che prevede una verifica nel corso del prossimo anno.
E poi c’è la mitica “anomalia italiana” che in Europa non accenna a ridursi:
l’Italia diverge rispetto al modello sociale europeo, e alla competitività   con il quale tutta l’Europa deve fare i conti, con un’età   pensionabile ancora bassa rispetto a molti altri Paesi dell’UE e il forte differenziale nella pensione di vecchiaia tra uomini e donne. Quest’ultimo aspetto potrebbe già   l’anno prossimo essere oggetto di un richiamo da parte della Corte di Giustizia dell’UE e c’è da augurarsi che lo strumento giuridico non si sostituisca alla maggiore flessibilità   che una materia così delicata potrebbe ricavare dalla politica. A patto beninteso, che questa affronti il problema magari non nei termini brutali del ministro Bonino ma nemmeno rinviando il tema alle calende greche.
Come si vede il tema è complesso e se anche l’UE non puಠdettare all’Italia, come a nessun altro Paese, le misure da adottare in materia pensionistica ha tuttavia il dovere di vegliare alle compatibilità   che sovranamente tutti hanno sottoscritto entrando nell’Unione e, più ancora, entrando nella moneta unica.
Non è azzardato pronosticare che l’UE si farà   sentire e che, con molta probabilità  , il punto dolente della recente riforma sarà   agli occhi di Bruxelles quello della sua sostenibilità   finanziaria nel rispetto dei patti liberamente convenuti. Per rispondervi Roma farà   bene a trovare argomenti più convincenti di quelli formulati nei giorni scorsi.

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