Lo spazio euro-mediterraneo vive ormai da tempo una stagione di tensioni e conflitti, che si stanno manifestando su entrambe le sponde, anche se in misura notevolmente diversa. Basti pensare ai drammi che alimentano da anni il conflitto israelo-palestinese o alle tragedie che si consumano da troppo tempo in Siria, con migliaia di vittime civili e milioni di profughi in fuga dal loro Paese, nel quadro di un conflitto permanente all’interno del mondo islamico.
In confronto sono ancora limitati i danni provocati da questi conflitti sul suolo europeo, che si tratti degli atti terroristici consumati l’anno scorso in Francia o in Spagna nel 2004 e in Gran Bretagna nel 2005 o che si guardi alla massiccia ondata dei flussi migratori che si stanno riversando in Europa, mettendone a dura prova la sua capacità di risposta.
È positivo che in un simile contesto riprenda vigore in Europa lo sforzo di sviluppare un dialogo con le comunità islamiche presenti numerose nei Paesi dell’Unione, fino nei nostri territori dove ancora in queste ultime settimane si sono intensificati momenti di confronto, alla ricerca di una convivenza pacifica tra le persone, credenti e laiche, che vivono fianco a fianco nelle nostre città, in attesa che le rispettive strutture di riferimento se ne facciano maggiormente carico.
Per tutti, sui rispettivi versanti, è però importante avere adeguata consapevolezza della difficoltà di questo dialogo, che non può prescindere dalla complessità della storia che abbiamo alle spalle e dalle grandi distanze che ancora separano le diverse culture religiose e laiche nello spazio euro-mediterraneo.
La storia da cui viene l’Europa di ispirazione cristiana è fatta essa stessa di reciproci conflitti nei confronti dell’Islam oltre che di tensioni e divisioni al proprio interno, in particolare dal XVI secolo, con la riforma protestante e con l’irruzione del pensiero laico, ispirato all’illuminismo e segnato da un processo di individualizzazione e di secolarizzazione che ha mutato profondamente il volto del cristianesimo europeo.
Basti pensare che 150 fa nella Chiesa cattolica faceva scuola il Sillabo di Pio IX, negazione radicale della modernità, e che 100 anni fa si professavano cristiani in Europa sette suoi abitanti su dieci, che si stima diventeranno due su dieci nel vicino 2025. Un’evoluzione che, non senza fatica, ha prodotto già nel 1891 un’enciclica coraggiosa come la Rerum novarum di Leone XIII ed è approdata, cinquant’anni fa, alle aperture del Concilio Vaticano II e, oggi, alla tenace volontà di dialogo di papa Francesco.
Niente, o quasi, di tutto questo è avvenuto sul versante musulmano e non solo perché l’Islam, nato nel 622 d.C., sconta secoli di ritardo rispetto al cristianesimo e, ancor più, dell’ebraismo, ma perché le sue vicende storiche, insieme con le molte frammentazioni al proprio interno e le pesanti conseguenze economiche e politiche delle occupazioni coloniali europee, non gli hanno consentito di misurarsi con la modernità.
Di questa modernità la comunità islamica non ha raccolto le nuove istanze, in particolare sui temi dei diritti e della politica (come ci ricorda in questi giorni il regime teocratico iraniano), e oscilla tra il desiderio di accedervi e la rivolta rabbiosa verso tutto quello che la rappresenta, rivolta all’origine di molti atti terroristici, come appare chiaramente dagli attentati in Francia.
Innegabile che oggi le due società, quella europea e quella islamica, siano segnate da grandi differenze, dall’autonomia della politica rispetto alla religione fino alla concezione dei diritti e all’amministrazione della giustizia, spesso esercitata dai musulmani in obbedienza alla legge coranica della “sharia”.
Si tratta di distanze – e non sono tutte – molto profonde, che sarebbe sbagliato sottovalutare. Non sono però nemmeno un “destino” immutabile: la storia è una lunga pazienza e ci ha insegnato che molte cose possono cambiare. E cambieranno se le persone, dal basso, cercheranno l’incontro invece che lo scontro, superando gli steccati della politica, lavorando insieme per un dialogo difficile invece di accontentarsi di ammiccamenti “buonisti” che del dialogo rischiano di essere il peggior nemico.