Le parole di chi aspira a governare l’Italia sono state chiare: “Orban ha vinto le elezioni, più volte anche con ampio margine con tutto il resto dell’arco costituzionale schierato contro di lui: è un sistema democratico”. Un’affermazione che, con poche varianti Giorgia Meloni, potrebbe ripetere per un altro rappresentante di una “democratura”, quel Vladimir Putin al potere in Russia da oltre vent’anni grazie al “voto democratico”, “eterno amico” di quel Xi Jinping, che al prossimo Congresso del Partito comunista cinese batterà probabilmente il record mondiale di longevità al potere, quasi senza scadenza.
Il nervosismo, che mal si addice a chi governa, sta giocando brutti scivoloni a Giorgia Meloni: qualche giorno fa, minacciando l’Unione Europea di mettere fine alla “pacchia” che avrebbe danneggiato l’Italia; il 15 settembre, costretta dal voto dei suoi nel Parlamento europeo, inneggiando alla democrazia ungherese.
Vale la pena raccontare in sintesi quanto accaduto al Parlamento europeo a Strasburgo a proposito dello stato di salute della “democrazia” in Ungheria.
I parlamentari europei erano chiamati ad esprimersi sul rispetto dello Stato di diritto da parte di un Paese, l’Ungheria, che da anni è sul banco degli imputati per le sue disinvolte violazioni dei diritti fondamentali. Per questa ragione è da tempo tenuto in quarantena da parte delle Istituzioni UE senza poter accedere alle importanti risorse del “Piano europeo di ripresa” e del Fondo di coesione, complessivamente oltre 30 miliardi di euro.
Non a caso a Strasburgo la proposta di Risoluzione dal titolo “Esistenza di un evidente rischio di violazione grave da parte dell’Ungheria dei valori su cui si fonda l’Unione” si affiancava a quella sulla “Situazione dei diritti fondamentali nell’Unione Europea nel 2020 e nel 2021”.
La Risoluzione di condanna dell’Ungheria, adottata a larga maggioranza (433 a 123), con il “coerente” voto contrario del Gruppo politico presieduto da Giorgia Meloni e del Gruppo di cui fa parte la Lega di Salvini, pesa come un macigno sulla deriva autoritaria del governo ungherese e sempre per coerenza, su chi candidato a governare l’Italia, non si dissocia.
La Risoluzione del Parlamento europeo meriterebbe un’analisi dettagliata (32 fitte pagine), operazione qui impossibile, cui però si può facilmente rimediare andando sul sito del Parlamento europeo alla voce “Testi approvati il 15 settembre 2022”. Limitiamoci qui ai capi di accusa al regime autoritario di Orban, su uno spettro molto ampio di imputazioni.
Dopo una solida argomentazione in premessa, il riflettore è acceso sul funzionamento dei sistemi costituzionale ed elettorale, l’indipendenza della magistratura e di altre istituzioni e diritti dei giudici, la corruzione e conflitti di interesse, la privacy e protezione dei dati, la libertà di espressione, compreso il pluralismo dei media, la libertà accademica, la libertà di religione, la libertà di associazione, il diritto alla parità di trattamento, inclusi i diritti delle persone LGBTIQ, i diritti delle persone appartenenti a minoranze, i diritti fondamentali dei migranti, dei richiedenti asilo e dei profughi e i diritti economici e sociali.
Da non dimenticare i destinatari di questa brutta pagella ungherese: non solo, come abitualmente, il Consiglio dei ministri UE e la Commissione (richiamata ad avere più coraggio per le sanzioni verso Orban) ma, tenuto della gravità della situazione e dei rischi che fa correre a tutta l’UE, anche i Governi e i Parlamenti nazionali, il Consiglio d’Europa, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa e le Nazioni Unite.
Si tratta di un grido di allarme che chiama tutte le Istituzioni democratiche del mondo al dovere di vigilanza perché il virus ungherese non le ammorbi. E invita chi è chiamato all’esercizio del voto a non lasciarsi distrarre da facili slogan ed avere consapevolezza dei rischi che corre.