Elezioni nel Regno Unito: Scotland exit?

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Il Regno Unito, fin quando rimarrà tale, può contare su una popolazione di circa 66 milioni di abitanti, dei quali 55 in Inghilterra, poco più di 5 milioni in Scozia, circa 3 milioni nel Galles e poco meno di 2 milioni nell’Irlanda del nord. Ognuna di queste realtà si considera una “nazionalità  costitutiva” del Regno e già questo la dice lunga quanto a una convivenza problematica tra popolazioni molto diverse  e fiere delle loro identità.

All’indomani di Brexit abbiamo già avuto modo di capire quanto siano sotto pressione le relazioni tra l’Irlanda del nord e la sua capitale Belfast con Londra. Qualcosa del genere rischia di verificarsi con la Scozia, dopo le elezioni dello scorso 6 maggio, conclusesi con la netta vittoria del partito indipendentista SNP (Scottish National Party), guidato dalla sua grintosa leader Nicola Sturgeon che ha mancato per un soffio la maggioranza assoluta

Non data da ieri l’insofferenza della Scozia per la sua “annessione” all’Inghilterra, fin da quando questa venne formalizzata nel 1707, dopo secoli di contrasti e conflitti sanguinosi. Ma questa insofferenza è riesplosa con la sciagurata conclusione di Brexit e la secessione britannica dall’Unione Europea alla quale aveva detto “no” nel 2016 il 62% degli scozzesi, dopo che nel 2014 una corta maggioranza “unionista” aveva detto allora “no” alla richiesta di indipendenza dal Regno Unito da parte del partito SNP.

E’ in questo contesto che vanno valutati i risultati elettorali del 6 maggio: con la netta vittoria del partito indipendentista, che conquista 64 seggi su 129, e il buon risultato dei Verdi, anche loro indipendentisti, con 8 seggi, si delinea una maggioranza che darà filo da torcere a Londra. Questo nonostante il buon risultato dei conservatori con Boris Johnson nelle elezioni amministrative del resto del Regno Unito,senza tuttavia riuscire a conquistare la maggioranza nelle grandi città, a cominciare da Londra che, resta nelle mani dei laburisti, molto in difficoltà in altre regioni britanniche.

Questa attenzione portata al voto nel Regno Unito è motivata da una doppia ragione: da una parte per valutare la coesione politica di un Paese esposto ai venti di secessione, certamente in Scozia, ma anche nell’Irlanda del nord e nel Galles; dall’altra per misurare il consenso popolare verso il governo nazionale per la sua gestione della pandemia.

Su questo secondo versante non c’è dubbio che il risultato elettorale premia Boris Johnson, nonostante il disastroso contrasto iniziale alla pandemia, recuperato però con una campagna vaccini coraggiosa ed efficace. Un segnale che potrebbe trovare  una eco anche nelle consultazioni elettorali italiane e tedesche in autunno, e più tardi, nella primavera dell’anno prossimo in Francia. 

Meno tranquilli saranno invece i sonni di Johnson sul futuro del Regno Unito, esposto alle turbolenze indipendentiste. Non è un mistero che in Scozia la voglia di indipendenza sia forte e si sia accentuata dopo la secessione britannica dall’UE con Brexit, al punto da annunciare la richiesta di un referendum che consenta alla Scozia di uscire dal Regno Unito per rientrare nell’Unione Europea, dando qualche problema anche a quest’ultima in vista di un’eventuale adesione scozzese.

Difficilmente questo percorso verso l’indipendenza si concluderà in tempi brevi, anche perché il referendum, richiesto probabilmente dalla maggioranza degli scozzesi, non potrà tenersi senza l’accordo di Londra e già si annunciano battaglie legali che potrebbero coinvolgere la Corte Suprema britannica, generando instabilità in un Paese alle prese con i postumi della Brexit come accaduto, prima con le tensioni con l’UE per i vaccini e, più recentemente, con grottesche “battaglie navali” tra Francia e Regno Unito per i diritti di pesca. 

Con la speranza che non si vada oltre, come invece si può temere per il rischioso conflitto che sembra crescere nell’Irlanda del nord, riportandoci indietro di anni. Esito che in Europa nessuno si augura. 

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