Elezioni in Serbia e fragilità dei Balcani

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Si sono svolte in Serbia il 2 aprile scorso le elezioni presidenziali che hanno portato alla vittoria, direttamente al primo turno con il 55% dei voti, il primo Ministro Aleksandar Vucic, capo del Partito Progressista di centrodestra. Una vittoria chiara e netta, visto che la distanza fra Vucic e i suoi avversari politici è enorme: il candidato Sasa Jankovic (centro-sinistra), arriva infatti in seconda posizione con il 16,2 % dei voti, vale a dire con il 40% di differenza.

Una performance che non si era più verificata in Serbia dal lontano 1992, con la vittoria al primo turno, con il 53% dei voti, del dittatore Slobodan Milosevic, al quale Vucic, in quanto Ministro, era legato in un intransigente ultranazionalismo durante le guerre nei Balcani. Non è certamente un riferimento di buon augurio, soprattutto quando la memoria corre verso ricordi come la tragedia di Srebrenica e che solleva, malgrado la vistosa trasformazione politica effettuata da Vucic, il legittimo interrogativo sulla trasparenza delle elezioni, sulla libertà di accesso ai media dei candidati, sull’essenza stessa del cammino verso la democrazia che la Serbia e il suo Governo hanno cercato di dimostrare all’Unione Europea fin dall’inizio dei negoziati di adesione, nel gennaio 2014. In proposito, è solo recentemente, nel luglio 2016, che si sono aperti due importanti capitoli per il negoziato: quello sui diritti fondamentali e quello su giustizia, libertà e sicurezza. Sono negoziati sensibili che ricordano costantemente all’Unione Europea l’estrema importanza di sorvegliare l’evoluzione democratica del Paese e non solo per assicurare una certa stabilità nella regione.

I commenti del neo Presidente, alla luce del risultato raggiunto, non sono infatti esenti dal generare una certa inquietudine e ambiguità: “Con un simile risultato, la Serbia non rischia l’instabilità. La Serbia è forte e sarà ancora più forte”. Ma sono anche carichi di messaggi alla stessa Unione Europea, messaggi impegnativi che chiamano in causa non soltanto la politica interna o regionale, ma anche quella a livello internazionale: “Per me è importante che queste elezioni abbiano dimostrato che una larga maggioranza dei cittadini serbi sia a favore della continuazione del percorso europeo, mantenendo rapporti stretti con la Cina e con la Russia”.

A differenza di altri Paesi dei Balcani, la Serbia è effettivamente vissuta, in questi anni recenti, in un clima politico relativamente stabile. Il Partito Progressista è al Governo del Paese dal 2012 e dal 2014, con Vucic Primo Ministro, ha sviluppato politiche orientate verso l’Europa, ha applicato con una certa rigidità le istruzioni del Fondo Monetario Internazionale e soprattutto ha accettato di negoziare e giungere a dolorosi compromessi con il Kosovo, ex Provincia serba indipendente e potenziale candidato all’adesione all’Unione Europea.

Una stabilità che si spera non abbia un prezzo democratico troppo elevato e che si inserisce tuttavia in un contesto balcanico in cui sono molteplici i focolai di tensione. Focolai che sembravano retaggio del passato e che vanno dalla grave crisi in Macedonia, dove lo scontro politico rischia di polarizzarsi su base etnica, alla volontà di Pristina di creare un esercito kosovaro. Focolai anche in Bosnia Erzegovina, dove la complessità istituzionale e politica scaturita dagli accordi di Dayton non ha mai favorito unità e pace nel Paese. Oggi si percepisce un acuirsi della distanza fra la Repubblica Srpska e la Federazione croato-musulmana, dove i serbo-croati accentuano nazionalismo e minacce di secessione. Non va dimenticato infine un altro elemento che, a livello internazionale, potrebbe costituire oggetto di instabilità nella regione e cioé la prospettiva, ormai imminente, dell’adesione del Montenegro alla NATO. Una prospettiva che non piace evidentemente alla Russia, la quale non ha mai nascosto la propria contrarietà ad ogni allargamento dell’Alleanza Atlantica nei Balcani e in Europa Orientale.

Malgrado le tensioni che persistono, i Paesi dei Balcani hanno tuttavia ribadito, in un recente Vertice tenutosi a Sarajevo, la volontà di proseguire il processo di integrazione europea nonché di impegnarsi in una collaborazione regionale più profonda. Questo sarà il messaggio che i sei Paesi candidati o potenziali candidati (Bosnia Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia, Kosovo ed Albania) porteranno al Vertice di Trieste del prossimo luglio, parte del “Processo di Berlino”, che ha come obiettivo di avvicinare i Balcani occidentali all’Unione Europea.

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