“Qui si fa l’Italia o si muore”, avrebbe detto Garibaldi a Nino Bixio in occasione della battaglia di Calatafimi nel 1860 e a qualcuno, nei giorni tragici di questa guerra, sarà venuto in mente di parafrasare quella frase, con riferimento se non al mezzo miliardo di cittadini europei almeno al futuro del progetto di unificazione europea.
La preoccupazione è fondata di fronte ad un’Unione Europea che in questa drammatica vicenda sta facendo tutto quello che può, cioè ancora troppo poco, perché poco attrezzata ad affrontare, con la strumentazione ordinaria del potere intergovernativo, le straordinarie emergenze umanitarie, economiche e politiche che rischiano di travolgerla.
Ma anche la speranza che l’UE rimbalzi è fondata, sulla base di quell’insufficiente ma straordinario impegno che finora è riuscita ad assumere, talvolta ai margini estremi del Trattato e adesso grazie a un crescente consenso dei suoi principali Stati membri – in particolare Francia, Germania e Italia – orientata a mettere mano a riforme che liberino l’Unione dal cappio mortale del voto all’unanimità, come sta dolorosamente sperimentando con l’Ungheria che blocca l’embargo al petrolio russo.
Colpita a sorpresa dalla pandemia l’UE, dopo un momento di comprensibile affanno, ha reagito bene: prima contribuendo in modo inedito al programma di vaccinazione e poi creando nel 2020 un debito comune che le ha consentito di liberare risorse per 750 miliardi di euro, quasi 200 dei quali destinati al “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (PNRR) dell’Italia.
Anche l’invasione russa ha colto l’UE di sorpresa, in parte colpevole dopo quello che la Russia aveva fatto in Georgia nel 2008 e in Crimea nel 2014. Sarà che se la paura fa 90, nell’UE ha fatto 27 o quasi, con tutti i suoi Paesi membri – ad eccezione della recidiva Ungheria – in una ritrovata coesione politica e in un dialogo, seppure non facile, con gli Stati Uniti nel quadro dell’Alleanza Atlantica (NATO).
Non era e continua a non essere facile quel dialogo, tenuto conto delle strategie divergenti sulle due sponde dell’Atlantico, unite nella solidarietà all’aggredita Ucraina, ma con obiettivi e tempi diversi rispetto alla Russia che l’Unione Europea ha tutto l’interesse a portare al tavolo della pace prima possibile, senza indebolire troppo un Paese che non è saggio umiliare.
Di fronte a questo quadro c’è da chiedersi come reagiscono i cittadini europei e dove concentrano le loro preoccupazioni. Si sono raffreddate quelle relative ai flussi migratori e rimandate a tempi migliori quelle pur incombenti a proposito dell’emergenza climatica. I risultati ottenuti ad oggi sul fronte della pandemia sono stati rassicuranti, anche se lasciano inquietanti interrogativi su quanto avvenuto altrove che in Europa e su analoghi rischi futuri. Su questi versanti sembra di capire che i cittadini europei stiano dimostrando una crescente adesione al progetto europeo.
Difficile invece capire quanto la risposta dell’UE all’invasione russa inciderà sul sentimento di appartenenza all’Unione dei suoi cittadini: troppo frammentata è oggi l’opinione pubblica nei singoli Paesi, più “europea” quella di chi vive un pericoloso vicinato con la Russia, più cauta negli altri Paesi che soffrono per l’effetto delle sanzioni e che si interrogano sull’allineamento dell’UE con la NATO a guida statunitense. Non è infondata la speranza che di qui possa emergere una spinta all’integrazione europea per guadagnare quella “autonomia strategica” che ci manca e che sovranismi e rischiose dipendenze ci hanno consegnato.
Forse un giorno, speriamo vicino, capiremo che non c’è futuro per questa “isola europea” dipendente dalla Russia per l’energia, dalla Cina per i semi-conduttori, dagli USA per la protezione militare e dall’Africa per un probabile incremento dei flussi migratori.
Quattro urgenti risposte da dare se non vogliamo vedere morire lo straordinario progetto europeo fondato sui valori di democrazia e solidarietà.