E adesso che fai, Europa, dopo Kabul?

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Saranno molti gli interrogativi generati dalla sconfitta occidentale a Kabul, anche di più difficile risposta che non la lista delle responsabilità, non condivise in misura uguale tra gli Stati Uniti, la Nato e l’Unione Europea. Ci sarà tempo, più a freddo, per una valutazione politica di quanto accaduto nel corso degli ultimi vent’anni in quel pezzo di Asia, così vicino all’Europa, ma più urgente adesso è chiedersi che fare, in particolare da parte dell’Unione Europea.

Sullo sfondo emerge ormai chiaramente uno sconvolgimento geo-politico mondiale, con un nuovo pericoloso gioco tra le grandi e medie potenze dell’area, dalla Cina alla Russia, dal Pakistan all’India fino all’Iran e alla Turchia, Paesi ad oggi diversamente collocati sulla scena internazionale,  i primi due membri del Consiglio di sicurezza dell’ONU ma assenti al G7 e l’ultimo, membro non si sa quanto affidabile dell’Alleanza Atlantica (NATO).

In attesa che le diverse pedine trovino il loro posto – e ci vorrà un momento – i Paesi del G7, quelli del mondo ricco occidentale, hanno provato a coordinarsi sulla risposta alle urgenze che li interesseranno molto da vicino, in particolare come Paesi di destinazione di importanti flussi migratori, non limitati ai soli profughi. 

Sull’argomento sarebbe bene, prima di disegnare scenari futuri, guardare alla mappa presente degli afghani già in Europa, cominciando da quelli protetti e quelli no. Delle 600.000 richieste d’asilo presentate tra il 2008 e il 2020 in Europa (extra-UE compresi) ne sono state accolte 310.000, 290.000 respinte, 92.000 sono in attesa di risposta e 70.000 persone già rimpatriate, con una sorpresa per quanto riguarda l’Italia che registra la più alta percentuale di protezioni accordate (a circa il 90% dei richiedenti) contro una media UE del 50%, attorno a cui si situano, con valori superiori, la Francia e, appena sotto quella soglia, la Germania.

Questa la mappa presente che registra fin da subito la necessità di una protezione urgente per circa 300.000 migranti afgani.

Siamo quindi di fronte ad una popolazione afghana già presente in Europa in via di parziale stabilizzazione, molto diversamente distribuita a fronte di una ben più massiccia presenza di rifugiati afghani nei Paesi limitrofi, in particolare Pakistan e Iran, proprio i Paesi nei quali l’UE vorrebbe fossero accolti dopo Kabul.

La richiesta europea di creare “corridoi umanitari” è senz’altro da apprezzare, viste anche le chiusure delle frontiere imposte dai talebani, resta da chiedersi verso dove dovrebbero approdare questi corridoi. I Paesi di Visegrad, con Slovenia, Austria e Grecia, hanno già fatto sapere che chiuderanno le frontiere ai migranti afghani, riversando sugli altri Paesi i flussi annunciati. Tra questi saranno particolarmente esposti Germania, Francia e Italia: i primi due Paesi alla vigilia di difficili consultazioni elettorali, decisive per il loro futuro politico, e l’Italia, generosa ma già alle prese con una costante pressione migratoria, in particolare dall’Africa. L’esperienza del passato insegna che le quote nazionali volontarie di accoglienza non hanno funzionato, visto il permanere dell’arma del veto per decisioni comunitarie in materia migratoria. Resta la possibilità, prevista dai Trattati, ma di difficile implementazione: puntare sul voto a maggioranza, ricorrendo al meccanismo delle “cooperazioni rafforzate” che consentirebbero a un numero determinato di Paesi UE di muoversi anche in assenza di accordo unanime dei Ventisette. É la prospettiva indicata recentemente dal Commissario Paolo Gentiloni al recente Convegno di Rimini: riuscirci potrebbe dare una prima risposta urgente ai migranti afghani e contribuire a salvare l’onore e la dignità dell’Europa, uscita ammaccata dalla sciagurata politica americana.

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