Diari di guerra – 14: Tensioni in Iraq

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Non si sono ancora calmate le proteste e le manifestazioni a Baghdad di questi ultimi giorni, proteste che hanno riportato l’Iraq sotto i riflettori dell’attualità, nel cuore del Medio Oriente. La sua geografia infatti la dice lunga sulla sensibilità della sua posizione, visto che confina a nord con la Turchia, a nord est con la Siria, a sud con il Kuwait e l’Arabia Saudita e ad est con l’Iran. Una cornice di Paesi dalle vedute e dalle influenze politiche e religiose contrastanti sullo scacchiere regionale.

Le recenti manifestazioni, che hanno avuto risvolti violenti e vittime, nascono in particolare dallo stallo politico che si è venuto a creare dopo le elezioni parlamentari dell’ottobre scorso e dalla mancata capacità della classe politica a formare un governo. Cosa, a quanto pare,  complicata se si pensa che, a partire dal 2003, il sistema politico iracheno si basa sull’identità etnica e religiosa e sulla rappresentanza delle tre comunità demograficamente più importanti (Sciiti, Curdi e Sunniti). Un modello di consociativismo che prevede che il presidente della Repubblica sia curdo, il primo ministro sciita e il Presidente del Parlamento sunnita. 

Un modello nato e adottato per garantire, se possibile, un sistema politico pluralistico, per assicurare una maggiore inclusione politica e per evitare il ritorno di una dittatura. Saddam Hussein, al riguardo,  aveva lasciato segni profondi con la sua presenza al potere per più di ventiquattro anni. Purtroppo questa apertura politica non ha raggiunto gli obiettivi indicati, anzi è stata terreno di nuove e profonde divisioni, di settarismi, di lotte per la spartizione di un nuovo potere, della formazione di milizie in lotta fra loro e, in ultima analisi, di una crescente distanza fra la società civile e la classe politica. Al riguardo non è mai mancata in Iraq la denuncia sociale di un tale sistema, troppo aperto alla corruzione e alle lotte di potere.

La difficoltà, da mesi a questa parte, a formare un governo, è dovuta in effetti alla situazione di continuo conflitto fra le parti coinvolte, e, oggi in particolare,  ad un’ importante spaccatura all’interno del mondo sciita iracheno, diviso, da una parte fra i sostenitori di Moqtada Sadr, i cui obiettivi politici sono il riconoscimento in quanto unica autorità sciita del Paese e la lotta alla corruzione e, dall’altra una componente sciita più vicina all’Iran. La recente decisione di Sadr di ritirarsi dalla vita politica del Paese, ha ulteriormente soffiato sulle tensioni che da tempo scuotono l’Iraq, portando ormai il Paese sull’orlo di una guerra civile.  

Ma una divisione all’interno dello sciismo iracheno e, più in generale all’interno dell’Iraq, equivale a riportare e alimentare divisioni nell’intero Medio Oriente. In primo luogo emerge l’interrogativo sul ruolo dell’Iran, particolarmente inquieto per quanto riguarda la sua autorevolezza e la sua influenza sull’insieme del mondo sciita nella regione, influenza che va dalla Siria, al Libano, allo Yemen, a Gaza. Non solo, ma anche la ripresa dei difficili negoziati per un accordo internazionale sul nucleare con Teheran. Si aggiunga a questo l’evoluzione di nuovi equilibri geopolitici che si stanno profilando, con attori come Israele e altri Paesi arabi nel quadro degli accordi di Abramo, attori non sciiti come la Turchia o il fragile rapporto di dialogo che si sta delineando fra Iran e Arabia Saudita.

In questo quadro, l’importanza di una stabilità politica dell’Iraq nella geografia del Medio Oriente appare evidente. Stabilità resa ancor più necessaria con la guerra in Ucraina, che ha messo in luce tutta la fragilità energetica e di approvvigionamento energetico dell’Europa. Il Medio Oriente torna quindi ad essere una regione strategica in evoluzione, alla quale è legato il futuro di crescita dei nostri Paesi e il cui sottosuolo, in Iraq, in Iran e altrove, è ancora ricco di quei fossili, petrolio e gas,  armi di guerra della Russia di Putin.

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